Dopo un anno di crisi feroce, tra le imprese ha fatto la sua comparsa un fenomeno nuovo, almeno per il potenziale rischio che rappresenta. Nel triangolo Milano-Bergamo-Brescia, ma anche nel Nordest, è in crescita il numero di concordati preventivi chiusi con percentuali molto basse, se non irrisorie, di rimborso dei fornitori creditori. Oppresse dall'indebitamento e dalla difficoltà di trovare credito, numerose società scelgono la strada del concordato preventivo per cessare la produzione, pagare il 10-15% del monte debiti e poi, magari, riaprire con una newco. Il fenomeno è ormai talmente tangibile che il presidente di Assofond, Enrico Frigerio, ha scritto al presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, per sottolineare come questa tendenza sia in palese contrasto con la concorrenza. La preoccupazione di Frigerio è condivisa dai presidenti di Ucimu (automazione industriale), Amafond (macchinari per fonderie) e Anima (meccanica varia). Che chiedono interventi per fermare una tendenza che rischia di dilagare.
Rischia di essere questo uno degli esiti, il più paradossale, per un istituto che è uscito profondamente cambiato dalla riforma del diritto fallimentare completata solo due anni fa. Il concordato preventivo doveva servire per un'emersione tempestiva della crisi senza dovere arrivare per forza alla liquidazione. Ma ora anche dai giudici arrivano preoccupazioni in serie. Troppo forte il rischio di prevaricazioni: avere infatti previsto che per il sì al piano di concordato basta la maggioranza dei crediti privilegia i creditori forti a scapito, magari, dei piccoli fornitori. Sarebbe infatti potenzialmente sufficiente l'assenso di un solo creditore con il 51% dei crediti a fare passare il piano. Dai professionisti, dai dottori commercialisti in particolare, cui spetta attestare il piano, viene invece un richiamo a non smarrire le potenzialità di un meccanismo che può permettere il risanamento dell'impresa.