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L'Italia migliore è a Gloucester

di Franco La Cecla

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2 settembre 2009

Il razzismo italiano ha radici lontane. Se uno volesse rintracciarle dovrebbe anzitutto capire che i primi, principali oggetti di razzismo sono stati i nostri emigrati, trattati da chi restava con tutto il disprezzo e la superiorità riservati a una razza inferiore. Lo stereotipo che l'Italia si è costruita degli emigrati italiani ha avuto bisogno dei catalizzatori del cinema americano, dal Padrino in poi, e dall'altro canto dell'immagine da Pane e cioccolata alla Manfredi.
Un'oscillazione tra un'idea alla Altman dell'italianità kitsch, furba e rozza e dall'altra parte un vittimismo di sinistra per cui gli emigrati sono sempre e solo dolore, imbranamento e sofferenza. Per questo, se uno ha la voglia e la curiosità di esplorare l'emigrazione italiana laddove non corrisponde a questi stereotipi, si stupisce di quanto tanta storia e tante storie di vita sfuggano alle ombre della facilità cinematografica.

Gloucester in Massachusetts è il porto di pesca più importante d'America, lo è dal 1604 ed è il luogo intorno al quale la grande epopea della pesca si è andata costruendo per quattro secoli e più, dal Moby Dick di Melville ai capitani coraggiosi di Kipling, alla Tempesta Perfetta (il film con George Clooney) alla poesia di Charles Olson, ai dipinti dei "luministi" americani, alla pittura di Edward Hopper. In questo porto dagli inizi del 900 si sono insediati decine di migliaia di siciliani provenienti tutti dallo stesso paese, Terrasini, o da paesi vicini come Trappeto, Sciacca, Porticello. Oggi sono la maggioranza della popolazione dell'isola magnifica che prende il nome di Gloucester e aveva il nome indiano di melvilliana memoria, Annisquam.
Questi siciliani si sono inseriti nell'enorme macchina da pesca che ha costituito qui l'orizzonte umano del lavoro e della vita per decine di generazioni di indiani nativi, irlandesi, baschi, scozzesi, portoghesi. Dalla pesca alla balena sugli schooner a vela si è passati ai pescherecci di ferro e acciaio per la pesca al merluzzo, al cod che popolava a migliaia di quintali i George's Bank, i banchi più pescosi del mondo tra Canada e Massachusetts.

I siciliani che hanno pescato in quei banchi tra la nebbia, col freddo a meno trenta e le onde di sedici metri e più raccontano che c'erano giorni, alla fine ancora degli anni 60, in cui sui merluzzi di tre-quattro metri si poteva camminare e le lance tornavano talmente cariche da sfiorare il mare col bordo. C'erano giorni di pesca folle, 500mila tonnellate di pesce e i pescatori di Terrasini, Trappeto, Sciacca partiti scalzi e disperati da una terra ingrata guadagnavano qui fino a cinquemila dollari al giorno. Un'esistenza avventurosa ma dura, con perdite umane in mare a centinaia, a migliaia. Oggi il monumento ai caduti in mare che segna il lungomare di Gloucester, un uomo al timone in un mare in tempesta, è il ricordo di quelle migliaia che «andarono giù nel mare».

La festa di san Pietro, la festa principale di Gloucester è un'occasione per far parlare i vecchi capitani e per provocare i giovani a raccontare. Le cose sono cambiate. Il mare è in crisi. Il governo americano ha chiuso i George's Bank e la pesca oggi è limitata a un periodo molto breve dell'anno. La pesca costa. I pescatori siciliani che si erano comprati grossi pescherecci per andare a paranza a 200 miglia dalla costa, e restare in mare dieci, quindici giorni, a distanza di quattro giorni di navigazione, oggi sanno che quasi non vale più la pena, tra spese di combustibile, licenze da pagare, costo delle reti. Il risultato non è magro, ma non somiglia per nulla agli anni del boom. Eppure una volta che uno il mare ce l'ha dentro è difficile staccarsene e pur se non conviene, i vecchi capitani continuano a uscire e anche i giovani lo fanno.
Quest'anno altri due terrasinesi sono morti nell'affondamento del proprio peschereccio. Eppure alle feste che precedono la grande festa di San Pietro, sui piers del porto, al caffè Sicilia e al club dei pescatori San Pietro ci si accorge che la grande differenza che questa epopea della pesca ha creato nei pescatori siciliani è quella di aver loro dato una dignità e una mobilità sociale impossibile in patria.

Qui i pescatori disperati della costa occidentale della Sicilia hanno capito che il loro è un grande mestiere, che è ancora richiesto in Alaska e Canada per pescare salmoni e granchi giganti e che, per quanto ci sia la crisi, questa competenza qui è apprezzata, mitizzata. L'intelligenza degli emigrati ha fatto sì che una tradizione e un mestiere di cui facevano parte in patria si è sposata con la grande mitologia del mare presente qui. Loro non lo sanno, ma hanno operato un'integrazione forte e senza strappi con Ismaele e Achab, con Queequeg e Starbucks.
Le loro facce scolpite dal sale, le facce delle loro donne solcate da anni d'ansietà, ma anche da una forza imprenditoriale vivissima sono le stesse descritte da Kipling o dalle meravigliose poesie di Charles Olson. I pescatori siciliani sono manipolatori della distanza, as far as far can be, lontani come solo la lontananza può essere, che della distanza e dell'emigrazione hanno fatto la molla per inventarsi una nuova vita, e una vera grossa comunità che ha sviluppato un senso d'appartenenza speciale.

  CONTINUA ...»

2 settembre 2009
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