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POLEMICHE SUL CLIMA / Ghiaccio? No, conflitto d'interessi

di John Tierney

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03 febbraio 2010

Mi trovo nell'insolito ruolo di difensore di Al Gore e di Rajendra Pachauri (lo scienziato indiano insignito del Nobel per la pace insieme all'ex vicepresidente degli Stati Uniti). Quando vinsero il premio, nel 2007, tutti li acclamarono per il loro impegno disinteressato nella difesa dell'ambiente dalle devastazioni degli avidi produttori di combustibili fossili; da allora, però, qualcuno ha messo in discussione il loro altruismo. I giornalisti hanno cominciato a guardare la provenienza dei soldi che andavano alle società e ai gruppi non profit collegati ad Al Gore, e adesso hanno rivolto la loro attenzione a Pachauri, presidente dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (il gruppo intergovernativo d'esperti sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite).

L'Ipcc, considerato il punto di riferimento per la revisione inter pares nel campo della climatologia, nel 2007 richiamò l'attenzione sull'«altissima» probabilità che il riscaldamento globale provocasse la scomparsa dei ghiacciai himalayani entro il 2035. Quando, successivamente, il governo indiano pubblicò un documento che giungeva alla conclusione che non c'era alcuna prova evidente di un rapporto di causa-effetto tra il riscaldamento globale e il restringimento dei ghiacciai himalayani, sulle prime Pachauri respinse la pubblicazione definendola «scienza vudù», al di sotto degli standard dell'Ipcc. Ma poi è risultato che le proiezioni dell'Ipcc non si basavano sui più recenti risultati di revisioni inter pares, bensì su alcune ipotesi formulate da Syed Hasnain (un glaciologo attualmente inserito in un gruppo di ricerca coordinato da Pachauri) durante un'intervista rilasciata a un periodico una decina di anni prima.

L'Ipcc si è scusato per l'errore commesso, piuttosto imbarazzante per Pachauri, che ha dovuto far fronte anche ad accuse di conflitto di interessi: il Telegraph di Londra ha scritto che lo scienziato indiano ha «un vasto portafoglio di interessi affaristici», tra questi, i rapporti fra società che operano nel settore degli scambi di emissioni e il suo gruppo di ricerca The Energy and Resources Institute (Teri). Pachauri ha difeso la sua condotta morale, sostenendo di non aver avuto nessun tornaconto personale e di aver investito tutti i ricavi nel suo istituto di ricerca non profit. Ha condannato la tattica dei suoi detrattori dicendo: «Non potendo attaccare i dati scientifici, se la prendono con il direttore dell'Ipcc».

Non sono completamente d'accordo con queste esternazioni, perché ritengo che sia assolutamente lecito mettere in discussione alcune considerazioni scientifiche dei rapporti dell'Ipcc, per non parlare degli altri cupi ammonimenti presenti nei discorsi di Pachauri. Concordo invece su questo concetto di base: le accuse di conflitto d'interessi sono diventate la strategia più semplice per evitare un dibattito reale. Questa smania sempre più diffusa di andare a vedere da dove arrivano i finanziamenti troppo spesso non produce altro che meschini attacchi personali.

Certamente il denaro interessa a tutti. Dato che i due premi Nobel accusano chi nega i cambiamenti climatici di avere motivazioni economiche, credo che sia corretto indagare anche sui loro finanziamenti. Ma non ho dubbi che Gore e Pachauri si batterebbero comunque contro i carburanti fossili, anche se non ci fossero soldi in palio, come non dubito che gli scettici continuerebbero a criticarli anche se non ne avessero un ritorno economico.

Ma perché i giornalisti e i comitati etici sono così pronti a dare per scontato che il denaro, specialmente quello di aziende private, sia il primo fattore da tenere in considerazione quando c'è da valutare il lavoro di qualcuno? Innanzitutto per pigrizia: è più facile scoprire un legame con un'azienda privata che analizzare tutti gli altri fattori che possono condizionare il lavoro dei ricercatori. E poi anche per uno snobismo simile al disprezzo della vecchia aristocrazia britannica per "il ceto mercantile": molti scienziati, direttori di giornali e giornalisti si vedono come una sorta di classe sacerdotale, non corrotta dal commercio, anche quando lavorano per organismi che regolarmente incassano denaro dalle aziende sotto forma di fondi per la ricerca e pubblicità.

Questo atteggiamento snob è stato codificato nel 2005 dal Journal of the American Medical Association (la rivista dell'associazione dei medici americani), che ha detto sostanzialmente che ogni ricercatore che viene finanziato da un'azienda deve essere seguito da una sorta di chaperon. Adducendo come motivazione «le preoccupazioni sull'attendibilità dei risultati delle ricerche sponsorizzate dall'industria», la rivista ha deciso di non pubblicare questo tipo di lavori se fra gli autori non figura almeno un ricercatore non legato all'industria privata, che offrirebbe una garanzia formale della validità dei dati.

Il British Medical Journal (Bmj), il corrispettivo inglese della rivista americana, ha definito questa politica «palesemente scorretta» e ha criticato gli americani per aver creato «una gerarchia di purezza tra i ricercatori». Gerarchia che è apparsa particolarmente discutibile quando un gruppo di ricercatori universitari (non finanziati da nessuna azienda), analizzando decine di esperimenti clinici su larga scala condotti nei decenni precedenti, ha riscontrato che quelli sponsorizzati dalle aziende erano stati condotti con criteri molto più rigorosi degli altri.
  CONTINUA ...»

03 febbraio 2010
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