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DOPO COPENHAGEN / Europa e Usa a nozze sulla CO2

di Carlo Bastasin

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03 gennaio 2010

Il retroscena del vertice di Copenhagen sul riscaldamento globale rivela qualcosa di ancora più preoccupante dell'impasse nella salvaguardia ambientale del pianeta. Secondo la ricostruzione che è stato possibile raccogliere da fonti vicine alla presidenza americana e al governo tedesco, il summit ha infatti segnato una svolta molto negativa nelle relazioni tra Usa, Europa e Cina. La speranza di una governance multilaterale ispirata da obiettivi comuni si è infranta in un atteggiamento di rifiuto da parte cinese che ha scioccato gli europei, ma ha anche costretto a un radicale ripensamento il presidente Obama e ancor più il segretario di stato Hillary Clinton. Secondo una fonte di Washington, è probabile che le conseguenze più rilevanti di Copenhagen siano proprio quelle di politica estera, ma per ora la Casa Bianca considera poco utile che motivi di ostilità alla Cina vengano alla luce del sole, indisponendo il Congresso americano in vista del varo delle prossime leggi su commercio, ambiente ed energia.

Il braccio di ferro
L'imbarazzo per i nuovi rapporti di forza è diventato evidente la sera di venerdì 15 dicembre, in chiusura del vertice, con una serie di equivoci che hanno umiliato sia gli europei sia gli americani. Alle sette di sera il presidente Obama, costretto a subire il rinvio di tre quarti d'ora dell'incontro bilaterale con il premier cinese Wen Jiabao, ha scoperto che Wen si stava incontrando segretamente con Ignacio Lula (Brasile), Jacob Zuma (Sud Africa) e Manmohan Singh (India), i quali a loro volta stavano cercando di evitare gli inviti ricevuti da Obama a incontri bilaterali. Singh in particolare aveva fatto sapere agli americani di essere già partito in aereo. Superato lo stupore - «tanto meglio», ha commentato Obama aprendo la porta dietro a cui si svolgeva l'incontro segreto - il presidente americano ha deciso di entrare nella sala senza esitazioni chiedendo a Wen ad alta voce: «È pronto per me adesso, signor premier?». Ma i quattro capi di governo, presi di sorpresa, non erano affatto pronti, al punto che Obama ha dovuto recuperare una sedia per accomodarsi al tavolo: «Non vi preoccupate, mi siederò al fianco del mio amico Lula». Dopo un'ora e un quarto, la trattativa si sarebbe chiusa poco gloriosamente, con un accordo che verrà firmato entro il 1° febbraio da un centinaio di paesi, ma che è stato privato di ogni potere vincolante e che corrisponde esattamente alla posizione che i cinesi avevano imposto dall'inizio.

L'immagine degli europei esclusi dalla sala sarebbe solo una parte minore della storia di Copenhagen. L'incontro infatti era inteso come un bilaterale tra Obama e Wen a cui doveva far seguito un nuovo incontro multilaterale con gli europei. Secondo una fonte americana che ha partecipato alla trattativa, dal punto di vista della politica estera il dato più interessante del vertice è che d'ora in poi gli Usa negozieranno "in stretto coordinamento" con l'Europa, nei confronti dei paesi emergenti, «Cina in particolare». Washington considera la posizione europea ormai come unica e non frammentata, ma si riferisce in realtà alle posizioni comuni dei leader di Germania, Francia e Gran Bretagna. Dell'Europa viene piuttosto criticata la scarsa preparazione con cui i paesi si erano avvicinati alla conferenza. Non utilizzando ancora il rappresentante comune di politica estera, non avevano condotto sondaggi tecnici preliminari né con Pechino, né con gli altri maggiori paesi, Usa esclusi, limitandosi agli incontri tra singoli capi di governo che erano rimasti nel perimetro di scambi formali d'informazioni diplomatiche.
Proprio per questo, lo shock europeo di fronte all'opposizione cinese sarebbe stato terribile. Ma la Cina non È entrata da sola nel mirino della critica di Europa e America. Lo scontro a Copenhagen si è esteso ai paesi Basic (Brasile, Sud Africa, India e Cina) ed è quindi il primo segnale di un conflitto tra paesi sviluppati e nuove potenze emergenti che si basa su un contrasto tutt'altro che formale tra paesi europei che vogliono regole sovranazionali e statuite in forma di trattato vincolante nei confronti di tutti, e paesi come i Basic che non vogliono essere tenuti a rispettare regole comuni. In un certo senso si tratta di un bivio decisivo tra il possibile governo della globalizzazione e il caos.

Tra questi due poli si muove con grande ambiguità l'amministrazione americana. La versione ufficiale è che Washington preferisce evitare una soluzione "dall'alto verso il basso" come quella richiesta dagli europei. Ma la verità che emerge a Washington è che le uniche soluzioni negoziate a livello globale accettabili per l'Amministrazione sono quelle che possono essere approvate facilmente dal Congresso. E attualmente non esiste consenso alcuno per impegni fiscalmente onerosi. L'insistenza europea nel volere un Trattato da ratificare risale proprio al timore che un cambio di maggioranza politica a Washington porti gli americani a rinnegare unilateralmente impegni poco vincolanti.

  CONTINUA ...»

03 gennaio 2010
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