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Se la mano tesa di Obama diventa un pugno

di Giuliano Amato

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6 settembre 2009

«Se voi aprirete il pugno, noi saremo pronti a stringervi la mano». Quando il neopresidente Barack Obama la pronunciò nel suo discorso di insediamento, questa frase era ben di più di un bel passaggio retorico, dettato da un ritorno idealista. L'idealismo c'era, ma convergeva con il rinnovato realismo con cui negli Stati Uniti si era ripreso a guardare il mondo, dopo il fallimento dell'unilateralismo ideologico dal quale si era fatto catturare il presidente Bush. Tuffarsi in una guerra dopo l'altra, con il costo di migliaia di vite americane e con quello non meno lacerante di tanti civili, appare sempre di più - come ha scritto il repubblicano eterodosso (ma molto autorevole) Chuck Hagel - una reazione da ventesimo secolo ai problemi del ventunesimo. Il ventesimo secolo ha lasciato gli Stati Uniti come unico e solitario potere militare, ma nel ventunesimo usare sempre e in ogni caso quel potere per risolvere i problemi del mondo è sbagliato e controproducente. Vi sono minacce che è doveroso affrontare, ma non necessariamente le si elimina eliminando chi ne è portatore.

Purtroppo bisogna saper trattare anche con interlocutori sgraditi, affrontarli sulla base di solide alleanze e costringerli a seguire o metterli comunque nella condizione di non nuocere. Di qui il passaggio dalla confrontation all'engagement, di qui l'idea che negoziare non è capitolare, ma è affermare principi e condizioni.
È un'impostazione che ha già dato dei buoni risultati (la fine della confrontation con la Russia sulle rispettive dislocazioni missilistiche) e che ha fatto tirare all'Europa un respiro di sollievo: nell'alleanza atlantica non si è più divisi fra nati su Venere e nati su Marte e la stessa alleanza può rinsaldarsi in visioni e indirizzi comuni. Ma la domanda che incombe in questi giorni è se Obama riuscirà a restarle fedele o se, davanti a pugni che non si aprono, non si troverà costretto a imboccare altre strade, che possono portarlo molto lontano da ciò che molti, ancora, si aspettano da lui.

Intanto non possiamo dimenticare che all'interno della sua amministrazione il presidente (anche a causa delle scelte che ha fatto) ha intorno non solo chi la pensa come lui, ma anche falchi amanti se non della guerra, di sicuro della durezza, che hanno sempre visto con scetticismo le sue aperture. Né possiamo dimenticare che la stessa Hillary Clinton è, a dir poco, a metà strada fra queste posizioni. Certo si è che sull'Afghanistan, da una parte ci sono Richard Holbrooke e i comandanti militari che chiedono nuove truppe e spingono perché questa diventi sempre di più la guerra di Obama; dall'altro c'è chi gli ricorda - Chuck Hagel è fra costoro e lo ha scritto il 3 settembre sul Washington Post - che questa non è la sua guerra, che minacce non diverse arrivano anche dallo Yemen e dalla Somalia e che l'America non ha in mano, né potrà mai avere in mano, il destino dell'Afghanistan.

Ora si aggiunge l'Iran a porre un dilemma non meno drammatico. Vedemmo tutti nei reggitori iraniani i primi destinatari dell'invito ad aprire il pugno perché si potesse arrivare alla stretta di mano e sino alle recenti elezioni a Teheran la scelta sembrava essere questa. Ma lo è ancora dopo le elezioni e la contestazione interna che hanno suscitato, lo è ancora dopo che un ricercato internazionale per strage antiebraica, Ahmad Vahidi è stato nominato ministro iraniano della difesa, lo è ancora dopo che il primo ministro israeliano Netanyahu ha comunque fatto intendere che Israele non accetta il riconoscimento di questo Iran come potere regionale?
Già settimane addietro l'idea di consentire all'Iran uno status nucleare simile a quello giapponese - sì all'arricchimento dell'uranio senza arrivare però al possesso di testate nucleari - destava parecchie perplessità a Washington, soprattutto fra quanti sono in primo luogo sensibili alle valutazioni di Israele, dalla Clinton a Dennis Ross, passato di recente dal Dipartimento di Stato alla Casa Bianca. Ma quanta maggior forza possono acquistare le loro posizioni in questi giorni, con un Iran come quello che ci troviamo davanti e che, per di più, ha appena rifiutato per bocca di Ahmadinejad qualunque ulteriore negoziato in materia nucleare con i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania (il cosiddetto 5+1) all'insegna del «ben vengano le sanzioni»?

Ben vengano le sanzioni è esattamente quello che ha detto da tempo Hillary Clinton, che le vuole «paralizzanti». E all'efficacia delle sanzioni lo stesso Netanyahu affida, almeno per ora, la capacità di evitare azioni militari, che anche ai falchi israeliani appaiono molto rischiose. Del resto, il Congresso ci sta lavorando, con divieti di esportazioni non solo in Iran, ma negli stessi Stati Uniti per le società che vendono all'Iran.

È una politica che conosciamo e che abbiamo visto applicare, e fallire, in diverse occasioni precedenti. Di solito erano gli europei a dirlo, ma lo faranno questa volta, oppure preferiranno giocare loro stessi la carta della durezza, utile in politica interna a guadagnare consenso contro il fondamentalismo islamico? Sono domande per ora senza risposta e forse sarà nell'imminente assemblea generale dell'Onu che cominceranno ad averne. È un fatto che oggi il nitore della iniziale politica estera americana è già venuto meno. Non è più quella che venne annunciata nel discorso inaugurale e dalla quale erano nate tante speranze, non è neppure quella dell'amministrazione precedente, è, nella migliore delle ipotesi, in una fase di assestamento segnata, soprattutto, dal confronto fra le diverse posizioni interne all'amministrazione che cercano di conquistare il presidente.

  CONTINUA ...»

6 settembre 2009
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