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LEZIONI PER IL FUTURO / No, c'è chi ha visto la crisi

di Dirk Bezemer

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Mercoledí 09 Settembre 2009

Fin dall'inizio della crisi del credito, e della recessione che ne è seguita, è diventata una banalità dire che «nessuno l'aveva prevista». Anatole Kaletsky ha parlato sul Times di «coloro che non sono riusciti a prevedere la gravità di questa crisi», una categoria di cui fanno parte «quasi tutti i più importanti economisti e finanzieri del mondo». Glenn Stevens, governatore della Reserve Bank australiana, dice: «Io non conosco nessuno che avesse previsto il corso che hanno preso gli eventi. Ma è successo, è una cosa che ha delle implicazioni, e perciò ci dobbiamo riflettere sopra». È vero, dobbiamo rifletterci.

Perché in realtà molti lo avevano previsto, e da anni. Sono stati ignorati da un establishment che ha assistito, come ha affermato l'ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, nella sua deposizione di fronte al Congresso nell'ottobre del 2008, con «sbigottita incredulità» al «crollo del proprio intero edificio intellettuale nell'estate 2007». I modelli ufficiali non hanno individuato la crisi non perché le condizioni fossero inusuali, come spesso ci siamo sentiti dire. Non l'hanno individuata intenzionalmente. È impossibile mettere in guardia da una deflazione da indebitamento in un mondo modello in cui il debito non esiste. Questo è il mondo in cui vivevano i nostri leader. Devono affrettarsi a cambiare habitat.

Mi sono messo a studiare i modelli utilizzati da quelli che avevano previsto tutto («No One Saw This Coming»: Understanding Financial Crisis Through Accounting Models, Mpra). Tra costoro figura Kurt Richebächer, che pubblica una newsletter di investimenti e che nel 2001 ha scritto che «la nuova bolla immobiliare - insieme alla bolla obbligazionaria e azionaria - finirà inevitabilmente per implodere in un futuro prossimo, precipitando l'economia americana in una recessione profonda e prolungata»; e nel 2006, quando il mercato azionario ha invertito la tendenza, è tornato a sostenere che «tutti gli interrogativi restanti riguardano unicamente la velocità, la profondità e la durata della recessione». Wynne Godley, del Levy Economics Institute, ha scritto nel 2006 che «il leggero rallentamento del ritmo di crescita dei livelli di indebitamento delle famiglie, effetto del calo dei prezzi delle case, condurrà immediatamente a una recessione prolungata prima del 2010».

Michael Hudson, dell'Università del Missouri, nel 2006 scrisse che «la deflazione da indebitamento produrrà una contrazione dell'economia "reale", farà calare gli stipendi reali e spingerà la nostra economia oberata di debiti in una stagnazione alla giapponese, se non peggio». La cosa importante è che questi e altri analisti non soltanto hanno previsto, e nei tempi corretti, la fine del boom del credito, ma hanno anche intuito che questo fenomeno avrebbe inevitabilmente portato a una recessione negli Stati Uniti. Come ci sono riusciti?

L'elemento centrale del pensiero di questi analisti in controtendenza è la contabilità dei flussi finanziari (credito, interessi, profitti e stipendi) e dei fondi (debito e patrimonio) nell'economia, sommata a una distinzione netta fra economia reale e settore finanziario (incluse le proprietà immobiliari). In questi modelli a "flussi di fondi", la liquidità generata nel settore finanziario affluisce alle imprese, alle famiglie e allo stato attraverso il denaro preso in prestito. Questo può facilitare l'investimento in attività fisse, produzione e consumo, ma può agevolare anche l'insorgere di un'inflazione dei prezzi delle attività e di una crescita dell'indebitamento. La liquidità ritorna al settore finanziario sotto forma di investimento o sotto forma di servizio del debito e commissioni.

Pertanto, il ricorso al credito comporta una contropartita, con l'investimento finanziario che rischia di penalizzare il finanziamento della produzione. Una seconda intuizione importante è quella secondo cui, dal momento che le attività e le passività dell'economia devono restare in equilibrio, la crescita dei mercati finanziari trova corrispettivo in una crescita dell'indebitamento, gonfiando anche i flussi di pagamento degli interessi sul debito e delle commissioni finanziarie. I modelli a "flussi di fondi" quantificano la sostenibilità dell'indebitamento e del drenaggio di risorse da parte del settore finanziario ai danni dell'economia reale, consentendo a chi li utilizza di prevedere in che momento il rapporto tra la finanza e l'economia reale si trasformerà da supportivo a estrattivo, e quando verrà raggiunto il punto di rottura.

Calcoli di questo genere sono del tutto assenti dai modelli ufficiali usati da Stati Uniti, Regno Unito e Ocse per le loro previsioni. In linea con la teoria economica dominante, le variabili di bilancio sono considerate capaci di adattarsi automaticamente ai cambiamenti dell'economia reale, e dunque possono essere trascurate senza rischi. Questo metodo ignora il fatto che nelle economie più avanzate il giro d'affari del settore finanziario è superiore di molte volte al Prodotto interno lordo complessivo, o che a partire dall'inizio del millennio la crescita in America e in Gran Bretagna è stata trainata dalla finanza.

  CONTINUA ...»

Mercoledí 09 Settembre 2009
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