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LA RINASCITA BLOCCATA / L'élite del sacco di Napoli

di Carlo Carboni

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9 Settembre 2009

Il Mezzogiorno ci appare ancora ibernato, in uno stato di sospensione in questa lunga strettoia che l'uscita dalla crisi ci propone. Il problema è che a forza di restare sospesi, si sta profilando il rischio di un'uscita lunga e nebulosa per il Sud, impigliato sia nella tradizionale marginalità - quasi un'allergia allo sviluppo - sia nell'assistenzialismo alimentato dal mercato politico.

Per ora i riflettori sono accesi sull'autonomia politico-istituzionale, intesa come opportunità offerta dal federalismo fiscale agli enti di governo regionale e locale (ma c'è chi la ritiene una polpetta avvelenata). Sono lontani gli anni Novanta quando si parlava di un Mezzogiorno in ripresa, di un suo sviluppo senza autonomia. Al contrario, oggi il quadro è rovesciato e il rischio maggiore del Mezzogiorno appare l'autonomia senza sviluppo.
L'"autonomia" è iniziata a metà dello scorso decennio, con la stagione dei nuovi sindaci, emblema della selezione di una nuova classe dirigente politica meridionale. Ma le cose sono andate in tutt'altre direzioni, salvo che in quella magnificata dalle promesse politiche e dalla rituale retorica.

Le vicende dei ceti politici ristretti in Campania sono una illuminante metafora della parabola tracciata negli ultimi 15 anni dalle nuove élite politiche meridionali, con in testa gli ex-nuovi sindaci. Le chiamo non a caso élite, perché non le si può definire classi dirigenti, in senso proprio, soprattutto dopo aver letto il libro di Mariano Maugeri, Tutti gli uomini del viceré, in cui appare chiaro che queste élite politiche, di cui Bassolino era leader, non seppero resistere alla persistenza dei tradizionali aggregati sociali, culturali e politici meridionali. L'eredità di Gava, De Lorenzo, Di Donato e di Pomicino ha pesato su Bassolino, Iervolino, De Mita e Mastella, ma ancora di più la continuità del sociale, della sua tradizionale organizzazione.

Il Mezzogiorno resta infatti una società difficile da cambiare, impossibile senza un progetto nazionalmente condiviso. In assenza, continuano a prevalere comportamenti familistici e localisti, che restano i due grandi collettori, tra loro sinergici, per la raccolta del consenso da veicolare nel mercato politico.

Sono due hub del consenso, nei quali si sono incuneate anche le relazionalità di stampo mafioso. La politica funziona così: urne piene, ma tanta antipolitica. Sul mercato politico, dopo le delusioni seguite alle false promesse della stagione dei nuovi sindaci, è tornato in auge il voto di scambio, la politica degli affari e delle clientele sull'unico mercato efficiente esistente, quello politico, come scrive anche Maugeri a proposito delle vicende campane. Ma si tratta, come l'autore fa intendere, di una politica senza politica, senza un'idea di sviluppo: un ceto politico che è quindi sempre a caccia di una lealtà elettorale passiva, il più delle volte scambiata con promesse.

Il voto di scambio - per utilizzare la terminologia di Calise - ha avuto un rilancio a discapito del voto d'opinione e al carisma del leader, che, invece, durante la brezza del dopo tangentopoli avevano premiato i nuovi sindaci. La realtà meridionale è la dipendenza delle famiglie e delle imprese da un mercato politico del consenso dello scambio, che non esita a tingersi negli affari dell'illegalità mafiosa. È un circolo vizioso che porta all'inconsistenza dei mercati economici (salvo importanti eccezioni). Soprattutto, comporta che le performance macroeconomiche e del mercato del lavoro del Mezzogiorno siano ormai da anni "dissestati" rispetto al resto d'Italia e a paesi europei come Grecia e Portogallo. Non parliamo della sua regione e delle sua città più popolose, cioè della Campania e di Napoli, come è ben documentato dal libro di Maugeri.

Si è perciò consolidata l'immagine di un Mezzogiorno a tradimento: cifre colossali spese dalla collettività, risultati economici e di modernizzazione da fanalino di coda in tutta Europa. Certo è possibile depotenziare la crudezza di questa immagine, ad esempio, come fece Viesti circa due anni fa, quando con una bella analisi mostrò che poi lo stato italiano non spendeva in effetti così tanto quanto promesso dai politici locali. Ma qui emerge il nodo che ha strozzato la stagione dei nuovi sindaci al Sud, le loro false promesse e la delusione per i risultati... Molti di quei sindaci meridionali sono personalità e vittime di un'onda mediatica che governò il dopo tangentopoli. Sono anche vittime del loro carisma. Sono stati a loro volta travolti dal ritorno, dalla resilience, del voto di scambio: per intenderci, quello in cui il politico rende l'interesse pubblico una cinica funzione dell'interesse proprio e del suo cliente. In breve, la politica ridotta al mercato politico degli affari (un rischio elevato ovunque nelle democrazie occidentali, ma ormai pratica radicata nel Mezzogiorno).

Urge perciò una exit strategy per il Mezzogiorno, il rischio è rimanere in una società bloccata sull'autonomia e la forza del potere e del mercato politico, con le sue rendite e privilegi posizionali, con le sue liturgie delle fedeltà e delle appartenenze. Lo stesso federalismo fiscale rischia di rafforzare questa ipotesi, se non farà leva sullo sviluppo e la crescita. Tutti sanno che ciò comporta affrontare, in primo luogo, il problema decennale della criminalità mafiosa, che le nostre classi dirigenti dal dopoguerra ad oggi si sono trascinate - e con cui hanno perfino convissuto. Significa dialogare con le imprese, a partire dal quelle che, organizzate da Confindustria, sono state in prima linea nella lotta al potere mafioso.

  CONTINUA ...»

9 Settembre 2009
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