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Mike, la tv perde il principe-imprenditore

di Paolo Madron

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9 Settembre 2009

È morto in corso d'opera, ieri a 85 anni nella sua casa di Montecarlo, stroncato da un infarto, mentre sui canali di Sky da giorni scorrevano gli annunci del suo prossimo programma, una sorta di Rischiatutto che lo avrebbe riportato alle origini della sua televisione, al suo specifico di presentatore nazional-popolare.

Impossibile dunque non leggere la sua uscita di scena come metafora di un modo di interpretare il mestiere che non c'è più, che non ha diritto di cittadinanza nell'odierno procedere in crescendo dei palinsesti. Anche se lui avrebbe storto il naso, perché Mike Bongiorno non odiava le meta-fore, semplicemente le ignorava. O meglio, ignorava quelle che portavano con sé un senso deformante del reale accettando, come ebbe a scrivere mezzo secolo fa Umberto Eco nella sua stracitata fenomenologia del Personaggio, solo quelle «ormai assorbite dal lessico comune ». Ma siccome il linguaggio si vendica dei poveri di spirito, le sue celeberrime gaffe erano la pena per contrappasso. Al concorrente che lo elogia descrivendo le sue immersioni da sub eccezionale risponde: «Per carità, sono solo un sub normale». Mike si offre inconsapevolmente alla vendetta del doppio senso.

Questa totale adesione al reale era una delle prerogative che lo faceva un campione della medietà, non aristotelica ma italiana. Naturalmente quando ne scriveva Eco medietà era sinonimo di mediocrità, e Bongiorno era l'incarnazione archetipa nel suo essere riduzione «del superman all'everyman ». Ma ne è stata anche la forza, il motore della sua longeva carriera, fino a diventare negli ultimi anni un motivo di orgogliosa resistenza a un modo di usare il piccolo schermo per lui irriducibilmente antagoni-sta, altro da sé.

Campione di una televisione pedagogica, uguale a se stessa nella sua ostentata ripetizione dell'identico - da Lascia o Raddoppia? alla Ruota della fortuna per ogni domanda della vita c'è una risposta, una e una sola - si comprende bene come egli fosse diventato oramai inservibile alle logiche di Rai e Mediaset, finendo col diventare buono solo per il linguaggio della pubblicità che gli ha crudelmente cucito addosso l'aura del vecchio rimbambito. E persino il recupero in extremis fatto da Sky è da leggere non tanto come una convinta riscoperta del presentatore e del suo universo simbolico, quanto piuttosto come una ripicca conseguenza dell'acceso antagonismo con le reti del biscione. Solo per un genere Mike avrebbe potuto tornare buono, ed era il reality nella sua infermieristica vocazione a prolungare la vita di anime morte. Ma lui lo odiava, la considerava non tanto una voyeristica intrusione quanto una inaccettabile trasgressione del fatto che il media è un tramite tra chi produce immagini e chi le vede, e di quel tramite il presentatore è strumento docile, mai prevaricante.

In questo la tivù di Mike Bongiorno sta inequivocabilmente dalla parte del maestro Manzi piuttosto che di Ciao Darwin: è servizio, pedagogia non esibizionismo portato all'estremo. E in questo è stato coerente fino all'ultimo:quando la Rai gli ha dato il benservito è passato a Mediaset con la garanzia di poter continuare a fare la "sua" televisione. E nel suo elogiare gli sponsor, che guardando le sue telepromozioni ad alcuni è sembrato fin troppo zelante, fossero pentole, formaggini o materassi, c'era tutta la sua gratitudine per chi, sborsando quattrini, gli permetteva di continuare a lavorare, e di essere fedele al suo modello di uno spettacolo semplice, didascalico, artigianale. Perché Mike era un artigiano del piccolo schermo, un lavoratore dell'etere che considerava normale ciò che faceva alla stregua di un impiegato delle poste o di un insegnante. Ogni giorno casa e studi televisivi.

Quando Franco Tatò, allora amministratore delegato di Mediaset, lo spostò da quelli vicino a casa sua costringendolo a una lunga trasfertaperregistrarele puntate della Ruota della fortuna, lo considerò come un atto di ingratitudine verso un vecchio dipendente che aveva fatto tanto per la sua azienda.

«Ne parlerò con Silvio», disse dispiaciuto ma senza battere i pugni sul tavoloo lanciare proclami. Di Berlusconi aveva un'immagine salvifica, guai chi glielo toccava. Di lui gli piaceva tutto, e nell'ostinazione con cui ai tempi il Cavaliere aveva difeso il suo diritto di esistere in spregio al monopolio Rai vedeva la sua stessa tenacia nel difendere una televisione di sano intrattenimento, non banale nei contenuti, dove con il premio non si ricompensava solo l'apparire, ma l'abilità del concorrente, la sua preparazione. Autoreferenziale con se stesso, per fortuna Bongiorno non lo era con l'universo del suo lavoro,e questo lo rendeva diverso dai presentatori della sua generazione che hanno finito tutti, eccezion fatta per Corrado, a identificare il messaggio con il mezzo.

Col passare degli anni, da campione della medietà non è stato in grado di rendersi conto che c'è un tempo e un tempo, e il suo era finito con gli ultimi giri della ruota fortunata. Chi aderisce alla realtà e come lui, cito ancora Eco, «ne è pienamente contento», non si accorge del suo anacronismo. O se lo percepisce cerca di resistergli perché non lo considera un valore ma un vulnus . Se ne fosse stato consapevole di sicuro Mike si sarebbe fermato prima, non avrebbe dato le sue lamentazioni («Silvio dove sei? Silvio chiamami») in pasto alla ferocia di un mezzo che nella sua voracità si nutre dell'altrui decadenza. In questo forse la morte lo ha salvato, risparmiandogli ulteriori angosce. Ma ha anche preservato la grandezza di un uomo la cui storia è quella della televisione. Siamo sicuri che al suo funerale sarebbe contento se qualcuno salisse sul pulpito a gridare «Allegria! », oppure «Sempre più in alto», che per come era fatto lui, adesso che è più in alto di tutti, non suonerebbe certo una battuta di cattivo gusto .

9 Settembre 2009
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