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IDEE / Caro Obama Wall Street va cambiata ora o mai più

di Mario Margiocco

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1 Aprile 2010

Le grandi banche e finanziarie americane stanno spendendo 1,4 milioni di dollari al giorno per cercare di vincere quella che sarà, molto probabilmente, e assai più della riforma sanitaria, la vera battaglia storica dell'amministrazione Obama. Se e fino a che punto il presidente deciderà di ingaggiarla. I tempi sono chiari, perché non si può affrontare il voto di mid-term a novembre senza una riforma finanziaria credibile. L'iter della legge è al penultimo stadio, approvato a dicembre il testo della Camera e arrivato dalla Commissione bancaria all'aula, nei giorni scorsi, quello del Senato.
La posta in gioco è enorme, dettare le regole del mondo bancario-finanziario per un paio di generazioni. Le conseguenze sono importanti anche per l'Europa, perché difficilmente molte regole saranno efficaci senza armonizzazione internazionale. L'Europa è più avanti nel dibattito e – se si escludono alcuni aspetti, la sottocapitalizzazione di certe banche ad esempio - nella presa di coscienza sul da farsi. In Europa non c'è chi spende in lobbismo 1,4 milioni di dollari al giorno. Quello americano resta comunque un passaggio cruciale.
La cifra di quanto i big di Wall Street stanno spendendo l'ha fatta una settimana fa il viceministro del Tesoro Neal Wolin parlando in partibus infidelium, in quella U.S. Chamber of Commerce che è una delle roccaforti del lobbismo. «Alla fine – ha detto Wolin ricordando che la stessa Chamber ha stanziato 3 milioni contro la riforma – questa è una delle più costose campagna in difesa di interessi particolari che siano mai state fatte». Con l'obiettivo non di arrivare a una legge migliore, ma «di ritardare la riforma fino a quando la memoria della crisi svanisce e la volontà politica di cambiamento si spegne». Questo è un linguaggio piuttosto nuovo da parte dell'amministrazione Obama che, fino a gennaio e anche dopo, è stata molto gentile con Wall Street.
Per un anno pieno, e a partire da pochi giorni dopo la vittoria elettorale del 2008, Obama non ha mai in realtà affrontato nei fatti il mondo bancario mettendolo di fronte alle proprie responsabilità. Ha mantenuto e ampliato il manto protettivo steso dall'amministrazione Bush. Ha affidato l'economia agli uomini indicati da Bob Rubin, l'ex ministro del Tesoro di Clinton che affondava il 23 novembre 2008 insieme alla sua Citigroup. Lo stesso Wolin era un Rubin boy doc. Una strategia che ha salvato il sistema, lasciando i costi tutti al contribuente.
Salvare le banche equivale a salvare l'economia, era il messaggio che anche Obama personalmente lanciava. In parte sì e in parte no, è la conclusione cui sono arrivati molti americani, perché le grandi banche (la crisi è stata dei grandi, non di tutto il sistema) hanno ripreso molto bene a fare utili, con il salvagente di Washington che tuttora ne assicura il galleggiamento. L'economia e soprattutto l'occupazione assai meno bene.
Si arrivava così alla secca sconfitta di gennaio, per la Casa Bianca, nel voto per il seggio senatoriale del Massachusetts, e a vari altri segnali d'insofferenza. Subito Obama rilanciava sulla riforma finanziaria, assicurando che sarebbe andato sino in fondo e facendo propria la linea severa dell'ex governatore della Federal Reserve Paul Volcker, per un anno inascoltato consulente, messo in ombra dal ministro del Tesoro Tim Geithner e dal superconsigliere Larry Summers, finora garanti degli interessi di Wall Street. Poi Obama riprendeva la leadership sulla riforma sanitaria, assai meno cruciale ma politicamente importante, e alla fine vinceva, scongiurando il rischio di una presidenza abortita.
Userà Obama il capitale acquisito per fare una vera riforma finanziaria?
Se c'è da un lato da tenere a bada vendette ultrapopuliste contro la classe dirigente, di cui i grandi banchieri sono sempre un simbolo, dall'altro non si può facilmente pensare che Paul Volcker, senatori come Sherrod Brown, Ted Kaufman, Jeff Merkley e altri quattro o cinque colleghi tutti schierati con Volcker siano populisti, termine tra l'altro che suona meno denigratorio in America che in Europa, o che lo sia John S. Reed, ex numero uno di Citigroup, e altri - incredibile dictu, lo stesso Alan Greenspan oggi – che chiedono banche di dimensioni più contenute, non più "too big to fail", non più troppo grandi per fallire. O comunque in grado di rendere un eventuale futuro fallimento più gestibile. Visto che ormai, è certo e previsto dai due testi di Camera e Senato, le banche saranno sempre salvate.
Il salvataggio non dovrebbe essere così scontato, dice Volcker, che forse non dà sempre risposte praticabili, ma certamente pone le domande cruciali: sui limiti che deve avere una banca, garantita, in certe operazioni a rischio, sulle dimensioni gestibili di una banca, sulle regole per i derivati, sui limiti del peso che si può accollare al contribuente.
I due testi congressuali prevedono ora solo regole discrezionali, nel senso che autorità di sorveglianza, Tesoro e Casa Bianca sono autorizzati a intervenire su una banca a rischio. Ma non tutti si fidano dei regolatori, tranquillamente addormentati o conniventi negli anni scorsi. Né della politica.
  CONTINUA ...»

1 Aprile 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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