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È la fede che può salvare la politica

di Bruno Forte

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10 dicembre 2009


Il Dio della Bibbia è il Dio della storia: interviene in essa, è riconosciuto e amato a partire dalle meraviglie che vi compie e dalle parole che vi fa risuonare, esercita la sua signoria sulle vicende umane. Il protagonista umano della storia è il suo interlocutore privilegiato: al vertice dell'opera dei sei giorni Dio crea l'uomo a sua immagine e somiglianza. La storia intera, nel suo sviluppo, non sarà che un dialogo - accolto o rifiutato dall'uomo - fra il Signore dell'universo e gli abitatori del tempo.

L'iniziativa resta sempre di Dio: «La Bibbia non è la teologia dell'uomo, ma l'antropologia di Dio che si occupa dell'uomo e di ciò che egli chiede» (Abraham J. Heschel). Più che dirci ciò che gli uomini pensano del divino, ci testimonia ciò che Dio pensa degli uomini e della loro storia. All'uomo la dignità e l'onere della risposta: nella visione biblica la storia è desiderio e attesa, domanda e ascolto, ma anche bestemmia e scandalo della creatura davanti al suo Creatore e Signore.
Proprio così, è alla fede biblica che si deve l'"invenzione" della storia: dove altri videro "l'eterno ritorno" dell'identico, i credenti del patto riconobbero un destino, l'appello a una patria intravista, anche se non posseduta. La storia non è l'infinita ripetizione del ciclo dei giorni e delle stagioni, portato a coscienza per esorcizzare il dolore e farne una semplice tappa dell'eterno ritorno, ma la risposta a una chiamata, l'andare verso una meta. In questo viaggio l'uomo non è solo: come la sposa del Cantico, Dio è in cerca dell'uomo, lo chiama, percorre le notti per trovarlo e abbracciarlo. Il tempo storico è anche tempo di Dio, luogo della Sua promessa e delle Sue sorprese. Fra queste, la più indeducibile e alta per la fede cristiana è l'incarnazione del Figlio, con la quale il Verbo viene a mettere le sue tende fra gli uomini e a farsi egli stesso protagonista di una storia pienamente umana.

La sua Pasqua si offre come la "storia della storia", denso compendio del destino di morte e resurrezione di ogni uomo e del mondo. Dio fa Sua la morte per dare a noi la vita: la storia è agli occhi della fede questa unità di morte e di vita a favore della vita. Non l'eternizzazione del presente, ma lo storicizzarsi dell'Eterno è per la tradizione ebraico-cristiana la via della salvezza del mondo. Il Dio-con-noi, l'eterno Emanuele, Signore del tempo e della storia, è tale perché aiuta con la Sua grazia l'uomo a far lievitare il tempo verso l'eternità.
Nello scenario descritto, trova poco spazio l'agire politico: la mediazione non è arte dei Profeti. Essi scelgono piuttosto la denuncia, la critica che scaturisce dalla "riserva escatologica" legata alla fede. L'"invenzione" della politica appartiene ad Atene, non a Gerusalemme: l'idea di una "teologia politica" appare estranea a orecchie educate all'ascolto della Parola rivelata. Carl Schmitt, che introdusse questo concetto nel dibattito teologico-filosofico del 900, lo fece per veicolare la tesi della corrispondenza strumentale fra il potere politico e le rappresentazioni teologiche nella storia. Fede e potere si dividerebbero le sfide della storia: al potere l'esperienza, alla fede l'attesa. Contro le posizioni di Schmitt, Erik Peterson volle sostenere che ciò può essere vero del monoteismo, non della fede trinitaria. Mentre il monotesimo aveva potuto servire come legittimazione teologica dell'unità dell'impero, la dottrina ortodossa della Trinità avrebbe invece minacciato seriamente quest'ultima.

Tuttavia, non è certo la critica al potere che manca al monoteismo dei profeti, quanto piuttosto la fatica della mediazione, il senso della politica! Quel che bisogna riconoscere è che la politica non nasce a Gerusalemme, ma ad Atene. Il termine stesso rimanda a quella città unica dove, per la prima volta, apparve la "democrazia", il governo popolare della "polis". È Eschilo a registrare questa genesi nella forma altissima della tragedia: «Il "nemico" è promosso nella scena tragica al rango di protagonista e finge di parlare greco, ma proclama valori opposti a quelli su cui la Grecia sta definendo, per differenza appunto, il proprio profilo politico e culturale» (Monica Centanni, Introduzione all'edizione delle opere di Eschilo da lei curata per i Meridiani Mondadori).
Sta qui la forza di Atene contro i Persiani: è la "polis", segnata dai due grandi slarghi dell'"agorá" e del "teatro", quella che si contrappone al monolitico palazzo del potere persiano. L'"agorá" è il luogo dei commerci e delle manifestazioni della volontà popolare; il "teatro" è lo spazio dove si può dare voce al controcanto dell'anima, a tutto ciò che suona come coscienza critica dell'esercizio del potere. La "politica" nasce dalla combinazione della pubblica piazza e del teatro: il suffisso "ikòs" aggiunto a "politéia" - "polítes", alle figure, cioè, del "cittadino" e della "cittadinanza", sta a dire che non si fa politica senza il riferimento alla "città" e all'interesse di quanti la costituiscono. Dalle necessità della "pólis" è generata e misurata la mediazione politica; al servizio di essa deve porsi in un continuo, dialettico interscambio con la ricerca del "bene comune". Tutto questo non potrà realizzarsi se l'agire politico non saprà fare i conti con le altrui ragioni, e soprattutto con il riferimento al valore ultimo del bene comune e delle esigenze morali che lo garantiscono. In democrazia la politica ha bisogno dell'etica.

  CONTINUA ...»

10 dicembre 2009
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