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Il miraggio delle riforme aspettando il Principe

di Giuliano Amato

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10 gennaio 2010

Lo dice il capo dello stato, lo dice (lo ha ribadito ieri) il presidente del consiglio, lo dicono gli altri leader politici e lo dice la presidente di Confindustria. Facciamo una buona volta le riforme. È il non averle fatte che ci ha reso incapaci di risolvere i tanti problemi che abbiamo davanti. Solo le riforme ci permetteranno perciò di risolverli e di uscire finalmente dalle sabbie mobili che da troppi anni attanagliano lo sviluppo del paese.
Non tutti hanno in mente le stesse cose quando parlano di riforme. Ma c'è qualcosa che questi appelli hanno in comune e cioè il rischio che sentendole di continuo evocare come uno spartiacque fra presente e futuro, molti di noi percepiscano le riforme, a prescindere dai contenuti, come una magia che arriverà su di noi, dopo la quale tutto cambierà, noi compresi, e quello che sinora non siamo riusciti a fare diventerà possibile. Un po' come il bacio del Principe alla Bella addormentata.
C'è molto nella nostra esperienza che ci induce a percepire le riforme in questi termini quasi trascendentali. I processi che durano dieci anni e ci lasciano nell'attesa impotente della verità a cui avevamo diritto, i finanziamenti che arrivano tre anni dopo la promessa iniziale e costringono così a morte prematura ricerche che avrebbe generato nuovi prodotti o nuovi processi produttivi, i brevetti che è tanto complicato avere in Italia e che conviene fare all'estero (con benefici per l'estero perduti così dall'Italia), le nostre mitiche infrastrutture, oggetto prima di discussioni per decenni e poi di lavori in corso per altri decenni, cosicché la generazione che le volle raramente arriva a vederle. Per non parlare dei problemi nuovi che gli assetti esistenti non ci consentono di risolvere - da quelli di un mondo del lavoro e di un'organizzazione di impresa in continuo cambiamento al ruolo che potrà avere l'Italia nella divisione internazionale del lavoro, sul quale non osiamo neppure interrogarci.
Ci vogliono le riforme - ripetiamo a noi stessi - altrimenti nulla potrà cambiare. E discutiamo i mutamenti che dovremmo introdurre nelle nostre leggi e nella stessa Costituzione per rimetterci in moto. Ma siamo sicuri che tutto cambierà davvero e che è solo un problema di istituzioni e di regole quello a cui dobbiamo le nostre inefficienze e le nostre ingiustizie? Insomma, siamo davvero la Bella addormentata in attesa del bacio del Principe?
Un grandissimo storico dell'economia, premio Nobel nel 1993 e oggi quasi novantenne, Douglass North ha dedicato la sua straordinaria vita di studioso prima alle interazioni fra assetti istituzionali e sviluppo economico e più di recente a quelle fra gli stessi mutamenti istituzionali e i paradigmi culturali di coloro che li applicano. Quante illusioni fa cadere sull'attesa dei principi che con un bacio cambiano la realtà della vita!
Douglass North ti affascina perché ha il coraggio di affrontare domande gigantesche come questa: perché Inghilterra, Olanda e Spagna erano nelle stesse condizioni fino al Seicento e poi la Spagna rimarrà per secoli un paese arretrato, mentre Inghilterra e Olanda saranno alla testa dello sviluppo commerciale e industriale? Nel rispondere a domande del genere, North dimostra, in primo luogo, che le riforme funzionano quando nascono in società che le vogliono e che si sentono effettivamente impacciate, frenate nella loro vitalità dalla loro assenza. È una verità che vale per la grande storia, ma vale anche oggi a livelli più settoriali. Tutti ricordiamo che tra le grandi liberalizzazioni fatte in Europa in questi decenni il maggior successo lo ha avuto quella delle telecomunicazioni. Ed è andata così perché lì c'erano fior di gruppi industriali pronti a competere con i vecchi monopolisti. Altrove, dove i concorrenti non c'erano o erano molto più deboli, è andata assai meno bene.
Il secondo e connesso insegnamento che si ricava da North (specie dal suo Capire il processo di cambiamento economico, edito dal Mulino nel 2006) è che contano molto anche le nostre capacità di adattamento, gli eventuali pregiudizi con i quali guardiamo le riforme e quindi le aspettative che riponiamo nella loro gestione. E il "noi" - sia chiaro - non è mai un popolo intero e compatto, ma è la composita varietà dei gruppi sociali, economici e burocratici che sono comunque coinvolti. L'esempio estremo fornito da North di riforma che non ha funzionato è il decentramento introdotto dalla perestrojka di Gorbacev. Doveva ridurre il peso della burocrazia centrale e addestrare le periferie alla responsabilità, ma funzionari locali abituati all'ingordigia di chi poteva permettersela lo percepirono come la fine del controllo centrale sulle loro azioni. Ne uscirono appropriazioni e spoliazioni del patrimonio pubblico che si tradussero in una autentica disintegrazione dello stato.
Qual è allora la lezione che il continuo richiamo alla mitica capacità trasformatrice delle riforme rischia di nascondere? È quella che il capo dello stato, nel messaggio di fine d'anno, ha saggiamente accompagnato alla rinnovata sottolineatura della necessità delle stesse riforme. L'adesione al nuovo di cui c'è bisogno deve maturare in primo luogo in noi, specie se siamo tra coloro che le riforme le dovranno applicare. Siamo tutti pronti ad assumerci le responsabilità che il federalismo fiscale, una volta attuato, imporrà a ciascuno di noi? Per il Mezzogiorno sarà il federalismo auspicato da Salvemini e quindi quello che creerà finalmente una vera classe dirigente locale non più intermediaria dei trasferimenti e dei piaceri provenienti da Roma, oppure sarà una copia per nostra fortuna in miniatura del decentramento fallito di Gorbacev? E cosa sarà il processo breve? Un processo più rapido nell'accertare la verità o una procedura dilatoria in più per chiudere senza averla accertata?
  CONTINUA ...»

10 gennaio 2010
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