Ricevo questo onore con profonda gratitudine e grande umiltà. Si tratta di un premio per le nostre maggiori aspirazioni, quelle di non essere meri prigionieri del destino nonostante tutta la crudeltà e le ingiustizie del nostro mondo. Le nostre azioni fanno la differenza, hanno importanza e possono piegare la storia nella direzione della giustizia.
Tuttavia peccherei di superficialità se non prendessi consapevolmente atto della controversia che la vostra generosa decisione ha innescato. In parte ciò dipende dal fatto che sono all'inizio, non alla fine, delle mie fatiche sullo scenario internazionale. Rispetto ad alcuni dei giganti della Storia che hanno ricevuto questo premio - Schweitzer e King; Marshall e Mandela - i risultati da me ottenuti sono minimi. E poi ci sono naturalmente uomini e donne di tutto il mondo imprigionati e picchiati mentre perseguivano la giustizia, coloro che lavorano e tribolano nelle organizzazioni umanitarie per alleviare le pene di quanti soffrono; e milioni di altri esseri umani senza identità le cui azioni coraggiose e compassionevoli senza clamore ispirano anche i più incalliti e induriti dei cinici. Non posso ribattere a coloro che considerano questi uomini e queste donne - alcuni conosciuti, altri ignoti a tutti tranne che a coloro che essi aiutano - più meritevoli di me a ricevere questo premio.
Forse, però, la questione più controversa che riguarda il conferimento di questo premio proprio a me è che io sono Comandante in Capo di una nazione impegnata in ben due guerre. Una di queste guerre sta per volgere al termine. L'altra è un conflitto che l'America non ha voluto: un conflitto nel quale a noi si sono uniti altri 43 paesi - Norvegia inclusa - nel tentativo di difendere la nostra nazione e tutte le altre da ulteriori attentati.
Malgrado tutto, siamo in guerra e io sono responsabile del dispiegamento di migliaia di giovani americani, incaricati di combattere in una terra lontana. Alcuni di loro uccideranno. Altri saranno uccisi. Pertanto sono qui, oggi, con una consapevolezza precisa di ciò che implica un conflitto armato - e sono pieno di domande e di interrogativi difficili sul rapporto tra guerra e pace, e sui nostri tentativi miranti a sostituire la prima con la seconda.
(...) Ho parlato finora delle questioni che dobbiamo affrontare con il cuore e con la mente quando decidiamo di fare una guerra. Ma consentitemi adesso di parlare del nostro impegno per evitare di effettuare una scelta così tragica, parlandovi di tre modi con i quali è possibile pervenire a una pace giusta e duratura.
Prima di tutto, quando abbiamo a che fare con nazioni che infrangono leggi e regole, credo che dobbiamo mettere a punto delle alternative alle violenze, che siano di per sé già sufficientemente dure e valide per modificarne il comportamento, perché se vogliamo una pace duratura, allora le parole proferite dalla comunità internazionale devono esprimere qualcosa di inequivocabile. I regimi che infrangono le leggi devono rispondere del loro operato. Le sanzioni devono essere reali ed esigere uno scotto preciso. L'intransigenza deve sposarsi a pressioni crescenti: e simili pressioni possono esserci soltanto quando il mondo agisce unito e coeso.
Un esempio urgente di ciò è lo sforzo per scongiurare il proliferare delle armi nucleari, il tentativo di delineare un mondo privo di atomiche. Coloro che perseguono la pace non possono restarsene inerti e con le mani in mano mentre le nazioni si armano per una guerra nucleare. Lo stesso principio si deve applicare a coloro che violano le leggi internazionali maltrattando brutalmente le loro stesse popolazioni. Se in Darfur vi è un genocidio, se in Congo vi sono stupri sistematici, se in Birmania vi sono repressioni, vi devono essere conseguenze precise. Quanto più uniti saremo, tanto meno probabilmente dovremo essere costretti a scegliere tra un intervento armato e diventare complici nell'oppressione.
Questo mi porta al secondo punto: la natura della pace che vogliamo. Pace non significa soltanto assenza di conflitto evidente: soltanto una pace giusta, che si basi su diritti e dignità di ogni individuo, è una pace veramente duratura. Io credo che la pace sia instabile laddove agli esseri umani è proibito esprimersi, è tolto il diritto di parlare liberamente o venerare il Dio prescelto, viene impedito di scegliersi i propri governanti o di riunirsi senza timori per le conseguenze. Promuovere i diritti umani non significa soltanto esortare e caldeggiare. Ogni tanto a ciò si deve aggiungere un'azione diplomatica diligente e precisa. So che impegnarsi a trattare con regimi repressivi significa privarsi della purezza appagante dell'indignazione. Ma so anche che le sanzioni che non hanno seguito, le condanne senza discussione, possono implicare un paralizzante status quo. Nessun regime repressivo può imboccare una strada nuova, a meno di avere la scelta di una via di uscita, una porta aperta.
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