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Il mobile si fa cinese e schiva la crisi

di Marco Alfieri

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12 Marzo 2010
Il mobile si fa cinese e schiva la crisi (Ap)

«Siamo come in guerra, davvero», sbuffa Lorenzo Bucciol, dalla ridotta di Gorgo al Monticano, Alta Marca trevigiana. Trent'anni fa ha fondato la Legnox, settore mobili per il bagno. Oggi che ne ha 53 e che la sua creatura ha passato indenne il 2009 senza un'ora di cassa integrazione per i cinquanta dipendenti (12 milioni di fatturato di cui il 60% esportato e solo un -15% nel portafoglio ordinativi), non ha alcuna intenzione di sedersi sugli allori, anzi, ma prova a dare la sua ricetta anticrisi: «Stiamo costruendo una nuova rete vendita sui mercati europei e studiamo una nuova collezione, più attenti al rapporto prezzo/valore percepito», spiega. Se tutto va bene, «grazie ai nuovi materiali e a una progettazione più oculata, dovremmo riuscire a tagliare il prezzo finale del 15 per cento». E, badate, «non facciamo mobilio di alta gamma ma fascia media, alla portata di tutti: il segreto è che i clienti siano sicuri di fare un buon affare acquistando i nostri prodotti. Si convincano di spendere un po' meno del valore effettivo del prodotto...».

I mercati esteri nel frattempo non decollano ancora dopo dodici mesi di calma piatta: dalla Russia, che per alcuni anni ha assorbito il 70-75% dell'export triveneto, prima che scoppiasse la crisi e la grana delle dogane (con i dazi su camere da letto e sale da pranzo che passano in pochi giorni dal 30 al 45%) ai tradizionali mercati occidentali (Usa, Germania, Francia, Austria e Inghilterra). Meno 30/40% negli ordinativi è ancora il profondo rosso più comune lungo lo stradone ingolfato che corre dal quartiere del Piave a Motta di Livenza e a Pordenone: il primo distretto, anzi metadistretto del mobile italiano (314 imprese per 11mila addetti), che negli anni d'oro pre-crisi è arrivato a produrre il 23% dell'arredamento italiano, di cui il 52% esportato.
Allora c'è chi ultimamente ha preso a girare persino nelle fiere del Kurdistan per inventarsi qualche nuovo sbocco. Seminare e pazientare. I veneti sono maestri in questo. Sta meglio paradossalmente «chi fa prodotto finito sul medio-basso di gamma per il mercato domestico», spiegano dalla Federlegno-arredo regionale, contro tutti i manuali di economia e la retorica sul calabrone italiano. È il modello Bucciol. D'altronde la gente ha pochi soldi. Oppure «chi è salito sul carro Ikea e della grande distribuzione».

È il caso della Friulintagli di Portobuffolè, un nome che rimanda a una storia di artigianato dalle mani d'oro che sapeva ricavare torniti e timpani barocchi da un pezzo di faggio o di cirmolo. Negli anni 60/80 l'azienda diventa uno dei tanti terzisti che rende possibile il miracolo del mobile trevigiano. Oggi, che fattura 150 milioni dando lavoro a 450 addetti, Friulintagli oltre che essere il gruppo più grande del metadistretto è diventato il fornitore principe del colosso svedese per i piccoli mobili in kit. Terzisti atipici, certo. Con una struttura organizzativa interna e impianti di produzione giudicati fra i migliori d'Europa per efficienza e tecnologia, ma sempre questo fanno. «Mentre soffre maledettamente la fascia alta del mobile made in Italy, quello d'autore», snocciolano dal quartier generale di Federlegno. Sono scomparsi i mercati di sbocco, e trovarne di altri in pochi mesi, ruotare il portafoglio consumer nei paesi extra Ue, dove da qui al 2015 uscirà fuori la nuova classe media con vero potere d'acquisto, per i piccoli del Nord-Est non sarà mica facile.

Paradossale, no? Su il basso di gamma a tiro cinese per il mercato domestico, male l'alto (a tutto export). Magari è solo fumo statistico o una finestra illusoria dentro una crisi che tutto scombina, però è quel che restituisce lo tsunami mondiale nel territorio dei campioni del mobile tricolore.

La «guerra» di Nino Carcella è invece una battaglia diversa perché ha a che fare con l'atterraggio morbido di una cattedrale industriale che si sta frantumando al suolo, tra tufi lucani e Murgia pugliese, piegando il distretto del legno-arredo che da cinquant'anni ha la sua punta avanzata nel mobile imbottito. Eppure Matera, dove nel 1967 Pasquale Natuzzi insedia il primo stabilimento, è stata la punta storica del triangolo del salotto (gli altri lati Santeramo in Colle e Altamura). Ancora nel 2006, le aziende del triangolo erano 110, davano lavoro a 8mila addetti, fatturavano 2 miliardi, garantendo la bellezza del 16% della produzione mondiale di salotti in pelle, che dal tacco d'Italia s'imbarcavano per l'Europa, il Nord America, l'Australia e il Vicino Oriente. Oggi, nella sola provincia di Matera i 5mila addetti sono scesi a 2.500. Senza più poter svalutare, con l'euro che si è apprezzato e l'invasione cinese, è un po' la metafora del manifatturiero italiano. Sono fallite la Nicoletti e la New Interline. E il colosso Natuzzi è dimagrito moltissimo, mettendo in cassa metà dei quasi 3mila addetti.

La storia del signor Nino, che oggi ha 49 anni, comincia dove finisce la Nicoletti. «Per vent'anni mi sono occupato della divisione commerciale del gruppo», spiega. Poi, nel 2007, «insieme a mio zio, che in Nicoletti era il responsabile ufficio acquisti, sono uscito per mettermi in proprio fondando a Matera la Egoitaliano». Oggi Carcella dà lavoro a 15 persone facendo in modo più efficiente le stesse cose che facevano i più grandi, ma eliminando le rigidità tipiche dei big di distretto: «Costo del lavoro elevato, alto grado d'indebitamento e un'incidenza dei costi di trasporto sul fatturato complessivo decisamente fuori mercato (in alcuni casi vicini al 15 per cento)». Risultato: «Lavoriamo con 350 rivenditori in tutta Italia e stiamo crescendo tantissimo nonostante la crisi (+80% di fatturato 2009 sul 2008, pari a 3,6 milioni).

  CONTINUA ...»

12 Marzo 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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