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LETTERE CONTEMPORANEE / In Israele un muro, due stati e una pace che non c'è

di Giuliano Amato

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13 Dicembre 2009

C'è voluta la sconvolgente forza emotiva del muro, del muro egiziano che arriverà a trenta metri sottoterra e farà di Gaza una gabbia senza uscita, per attirare un po' della nostra attenzione su un tema cruciale del nostro tempo - il conflitto israelo-palestinese - nel quale tutto sta rapidamente cambiando, ma la maggior parte di noi neppure se n'è accorta.

Come hanno scritto Elliott Abrams e Michael Singh nell'ultimo numero di «World affairs», il dibattito sul Medio Oriente si è «largamente ossificato dal 2000, con discussioni iterative sui vecchi e immutati temi negoziali, mentre sono ignorate le dinamiche più profonde che hanno preso a dividere le parti».

Già, che cosa sta succedendo, su cui dovremmo accendere i riflettori che teniamo invece puntati, specie noi italiani, su questioni di ben minore importanza?

Sta succedendo che noi continuiamo a caldeggiare la soluzione dei due stati che dovranno convivere pacificamente fianco a fianco e continuiamo quindi a spingere Israele, il contendente al momento più forte, a fare la sua parte per renderla possibile.

Proprio questa settimana, il consiglio dei ministri degli Esteri europei ha adottato un forte e articolato documento che a Israele dà un'autentica strattonata, sottolineando che l'Europa non riconoscerà alcun cambiamento dei confini anteriori al 1967 che non sia concordato fra le parti, che sono illegali secondo il diritto internazionale gli insediamenti e le barriere costruite nei territori occupati, che è inaccettabile e controproducente la politica d'isolamento di Gaza, che va favorita una riconciliazione di tutti i palestinesi a sostegno del presidente Mahmoud Abbas.

Ci si potrebbe aspettare che tali posizioni incontrino il sostegno, oltre che degli israeliani più illuminati, degli stessi palestinesi e degli arabi, almeno di quelli che non puntano al conflitto permanente. Ma non è così. La verità sempre più evidente è che da quella parte si è smesso di crederci e si dice - è stato detto a me pochi giorni fa in un incontro londinese sull'argomento: «Non vale la pena d'impegnarsi perché tanto non si approda a nulla, di sicuro non si approda a uno stato palestinese che basti alle nostre esigenze. Ma noi non abbiamo fretta, il tempo lavora per noi».

In che senso il tempo lavora per loro? Nel senso tracciato dagli andamenti demografici e dalle conseguenze che porteranno con sé. I palestinesi di Gaza e West Bank, che erano poco più di un milione e 700mila nel 1991, hanno superato oggi i quattro milioni e continuano a crescere del 2,2% nella West Bank e del 3,3% a Gaza, contro l'1,7% di Israele. In più ci sono i tre milioni di rifugiati. Per Israele è così difficile creare gli spazi per lo stato palestinese? Che non lo si faccia e si vada avanti così. Alla fine i palestinesi saranno un'incontenibile maggioranza che, in un modo o nell'altro, sarà in condizione di prendere il controllo dell'unico stato esistente e avere in esso gli spazi che servono.

Basta rifletterci un secondo per capire che questa "one state solution" può diventare col tempo un approdo senza alternative e che si tratta della soluzione meno conveniente per l'Israele di oggi, sino a coincidere con la sua scomparsa. Ma com'è possibile allora che Israele non faccia il possibile per scongiurarla e abbia anzi bisogno di essere strattonato a tal fine? Il cuore della questione è proprio qui, è nei tanti vincoli e nelle tante variabili che stanno sulla strada di una funzionante "two states solution", sino a superare la capacità di uscirne degli attori in gioco. E i palestinesi, compresi quelli che sono partecipi della retorica del negoziato, hanno cominciato a collocare le loro aspettative al di là del fallimento che prevedono.

Ci sono i coloni che Israele deve convincere a non costruire più sui territori occupati o addirittura a lasciare gli insediamenti esistenti. E sappiamo quanto è costato a Sharon, l'unico che ci abbia provato davvero, far abbandonare un po' di case nel clamore di chi le occupava e, ancor più, dei partiti di estrema destra che facevano su questo messe di voti. C'è la necessità politica di correlare queste "concessioni" (se così si può chiamare un ripristino della legalità) a impegni contro la violenza da parte palestinese. Ma qui i conti li si fa con quella parte di Hamas che ha ormai un legame diretto con l'Iran e che è contraria a uno sbocco positivo al negoziato di pace.

Qualcuno allora dovrebbe convincere l'Iran, ma qui il gioco si allarga e si porta su variabili che investono l'intero scacchiere medio-orientale, la questione del nucleare iraniano e ciò che Stati Uniti, Europa, Russia e Cina potrebbero forse fare per risolverla. C'è infine la spinta interna ad Israele a far liberare i propri soldati prigionieri, a partire da Gilad Shalit. Ma questo porta a negoziare proprio con Hamas, a dare ad Hamas la vittoria della liberazione di suoi prigionieri e a indebolire di rimbalzo i palestinesi moderati di Al Fatah, che partecipano ai negoziati di pace con una forza rappresentativa sempre più esangue.

  CONTINUA ...»

13 Dicembre 2009
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