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Usa, Cina e l'eterno sorpasso mancato

di John Plender

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13 Novembre 2009

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Dove la tesi di Kennedy appare quanto mai fuori luogo è allorché suggerisce che gli Stati Uniti stiano seriamente per correre il rischio di un eccessivo allargamento imperiale, come accadde alla Spagna nel 1600 o alla Gran Bretagna nel 1900. Il caso più esemplare di questo allargamento eccessivo negli anni 80 fu l'Unione Sovietica, che crollò definitivamente, mentre gli Stati Uniti poco dopo riuscirono a rimettere in sesto il loro budget sotto l'amministrazione Clinton, senza nemmeno esentarsi dal loro impegno su vasta scala a livello internazionale.

La sfida economica giapponese, nel frattempo, si era ridotta a un nulla di fatto con lo scoppio delle bolle dei capitali e del settore immobiliare e con il grave pericolo di una deflazione. Il panico mediatico scatenato negli Usa per la presunta e temuta invasione giapponese si rivelò essere un indicatore perfetto, per quanto involontario, di un punto di svolta.

La questione, adesso, è capire se la tesi di questa espansione eccessiva fosse errata o semplicemente prematura. Nondimeno, notoriamente è arduo prevedere il momento esatto dell'ascesa o del declino delle nazioni e delle economie. Charles Kindleberger, storico dell'economia scomparso alcuni anni fa, era uno di molti esperti che credevano che la vitalità di una nazione avesse un andamento per corsi e ricorsi storici. Tra le cause interne di declino, aveva individuato l'aumento dei consumi, la riduzione dei risparmi, l'ostilità alle tasse, l'ineguaglianza, la corruzione, un debito in aumento, una finanza sempre più dominante nell'economia rispetto all'industria.

Eppure, se tutto ciò richiama alla mente le circostanze odierne, c'è da osservare che molti di questi fattori erano presenti anche nel 1929 negli Stati Uniti, quando una precedente crisi finanziaria coincise con la lunga transizione dell'egemonia economica dalla Gran Bretagna all'America. Quando nel 1996 Kindleberger scrisse il suo testo World Economic Primacy 1500-1990, credeva che effettivamente gli Stati Uniti stessero per fare uno scivolone. Non aveva però idea di quale Paese avesse maggiori probabilità d'emergere come potenza economica mondiale in sua sostituzione e considerava la Cina alla stregua di un cavallo sconosciuto sul quale è impossibile fare previsioni di sorta.

La tesi più efficace a supporto dell'ipotesi del declino riguarda quello che il professor Kennedy chiama «il dovere perenne di far corrispondere mezzi nazionali e fini nazionali». Poiché vi è una significativa correlazione a lungo termine tra le capacità produttive e di guadagno e la potenza militare, molto dipende dalla sostenibilità di una politica fiscale. Ecco spiegato perché i pronostici non sono favorevoli per gli Stati Uniti.

Sotto la duplice pressione della crisi finanziaria e del problema a più lungo termine legato all'invecchiamento della generazione del baby-boom, le proiezioni ufficiali prevedono deficit di bilancio di portata senza precedenti. Il Peterson Institute for International Economics di Washington calcola che dopo essersi avvicinato ai 1.500 miliardi di dollari nell'anno fiscale in corso - il triplo del record stabilito in precedenza - verosimilmente e quanto meno fino al 2020, forse anche in seguito, il deficit rimarrà nell'ordine dei mille miliardi di dollari l'anno.

Osservata dal punto di vista dell'afflusso di capitali nell'economia, la controparte di questi deficit si troverà in buona parte nell'attuale stato della bilancia dei pagamenti. In questo caso, l'istituto stima che il deficit delle partite correnti potrebbe salire dal precedente record del 6% del Pil a uno sconvolgente 15% o più entro il 2030, per un importo pari a 5.000 miliardi di dollari l'anno. Prevede anche che nello stesso periodo di tempo considerato il debito estero netto possa crescere dagli odierni 3.500 miliardi di dollari fino a 50mila miliardi di dollari, pari al 140% del Pil.

Simili cifre innegabilmente costituiscono una sfida demoralizzante per l'amministrazione Obama e sono una minaccia di rilievo per il dollaro, poiché in mani straniere vi è una quantità eccessiva di riserve in dollari. Dalla fine del 2000 alla metà del 2009 l'Fmi calcola che le riserve di cambio ufficiali straniere siano cresciute da 1.900 miliardi a 6.800 miliardi di dollari, 2.300 dei quali custoditi nei forzieri della sola Cina. Oltre il 60% di queste riserve sono in dollari.

Il recente dibattito in corso in Cina, ivi compreso l'invito a sostituire il dollaro come valuta principale per le riserve nel mondo tramite i diritti speciali di prelievo - un'unità contabile utilizzata dall'Fmi nei suoi rapporti con gli stati membri - sottintende una preoccupante perdita di fiducia nella politica monetaria e fiscale degli Stati Uniti. Al contempo, Fred Bergsten, direttore del Peterson Institute, sostiene che adesso è nell'interesse degli Stati Uniti stessi ridurre il ruolo del dollaro e incoraggiare un più consistente flusso di riserve in euro, renminbi e Sdr.

  CONTINUA ...»

13 Novembre 2009
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