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Rimboccarsi le maniche e al lavoro

di Guido Gentili

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13 Ottobre 2009
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi parla all'assemblea di Confindustria a Monza (Afp Photo/Giuseppe Cacace)

«Questa è la volta buona...», ha assicurato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi all'assemblea degli industriali di Monza. In effetti. Su quale terreno deve sentirsi impegnato il governo in questa fase cruciale di passaggio tra la fine della recessione e l'avvio della ripresa? Risposta: nelle riforme a sostegno di un paese da anni in deficit di crescita.
La stessa maggioranza lo ha messo nero su bianco nelle due risoluzioni parlamentari approvate da Senato e Camera in occasione dell'esame della "Nota di aggiornamento" alla manovra 2010-2013. Il parlamento, sta scritto, «impegna il governo» a proseguire negli indirizzi già indicati dal Documento di programmazione approvato a luglio e «a operare affinché le politiche di riforme strutturali da intraprendere siano orientate al rilancio dello sviluppo e dell'occupazione, in particolare del Mezziogiorno, garantendo così una migliore protezione degli strati più deboli della società».
Una formalità dovuta? Non solo, e male avrebbe fatto la maggioranza a considerare unicamente questo aspetto. Nel senso che le parole pesano: le «riforme strutturali», anche nella versione pragmatico-minimalista, significano cambiamenti veri. E costituiscono, comunque, la scommessa politica del governo Berlusconi sulla quale si è fondata la vittoria alle elezioni del 2008. È stata promessa una società libera di crescere, non un sistemicchio da "zerovirgola" incapace di svilupparsi.
Fermarsi su questa strada, o attardarsi in una guerriglia istituzionale senza quartiere, significherebbe per il governo creare le condizioni per la sua stessa auto-dissoluzione. E, soprattutto, farebbe pagare all'intero paese un prezzo altissimo. Berlusconi - anche dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul "lodo Alfano" - è pienamente legittimato a governare e dunque a realizzare il programma che tanto ha convinto, per usare una formula abusata, l'Italia che lavora e produce.
Su questo non esistono "terze vie": non si può governare solo un po' o a corrente alternata nell'attesa spasmodica dei risultati del prossimo sondaggio. Le riforme vanno fatte, e i conti si faranno a fine legislatura. Sì, ma da dove ripartire? Certo, ci si è messa di mezzo una formidabile crisi finanziaria internazionale che ha colpito duramente anche le econonomie più forti e questo ha complicato una situazione già difficile. Il governo, fin dal luglio 2008, ha chiuso la stagione degli assalti alla diligenza della legge finanziaria e ha stabilizzato la posizione dell'Italia in Europa: in termini di mancato rispetto del Patto di stabilità, siamo una pecora nera in compagnia di altre 19 pecore nere su 27 in totale. Di questo va dato atto al ministro Giulio Tremonti, che ha seguito fin qui una linea generale di "prudenza fiscale" e che confida ora sul gettito derivante dallo scudo per i capitali rimpatriati.
Ma il fisco compare in prima linea quando si parla di riforme. Tremonti vede la questione agganciata alla concretizzazione del riassetto federalista, che se correttamente attuato dovrebbe portare a un abbassamento della pressione fiscale. Ma parliamo del futuro. Intanto, la lettura della relazione previsionale e programmatica per il 2010 indica per il 2009 una pressione fiscale al 43% (42,8% nel 2008), 42,5% nel 2010, 42,4% nel 2011, nel 2012 e nel 2013. Sono cifre pesanti, che vanno lette assieme a quelle sulla crescita del Pil (-4,8% nel 2009, +0,7% nel 2010, +2% nei tre anni successivi) e ai dati sull'indebitamento netto dello Stato, migliori rispetto all'andamento di molti altri paesi europei. Mentre resta ferma la necessità – come ha ricordato ieri anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – di tenere sotto stretto controllo la spesa pubblica.
Le imprese hanno chiesto con forza, con la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, il taglio delle tasse sulle aziende, a partire dall'Irap, e sui lavoratori e l'economista Guido Tabellini ha dimostrato la logica della proposta. Le piccole e medie imprese sono molto sensibili a questo tema. Nel 2000 e poi nel 2006 Berlusconi definì l'Irap «un'imposta-rapina» che tarpa le ali alle imprese colpendo investimenti e assunzioni. Ma, ecco il problema, questa imposta così giustamente avversata, frutta alle casse dello stato circa 39 miliardi, con un gettito in calo da qualche anno per una serie di sentenze della Cassazione.
Ieri Tremonti ha detto: «Se noi questa tassa la eliminiamo, la eliminiamo e basta» e ha poi prospettato un'incentivazione a sostegno delle aggregazioni tra aziende. La pressione per una "svolta", ben al di là di una mossa per detassare le tredicesime, è forte e lo stesso premier Berlusconi ha annunciato il varo (finanziato con le risorse provenienti dalla lotta all'evasione) del "quoziente familiare" (meccanismo che premia le famiglie numerose ed è un cavallo di battaglia dell'Udc di Casini). La partita del "giù le tasse", sempre vincente agli occhi degli elettori e non solo del centrodestra, torna in campo.
E l'opposizione? Colpisce la discussione del Pd, impegnato nel congresso. Nelle sue risoluzioni proposte in parlamento figura un po' di tutto, dall'allentamento del Patto di stabilità interno a una generalizzata richiesta di riduzione delle imposte. Ma si chiedono anche (forse nel segno di un ritrovato orizzonte ulivista) il ripristino delle misure in materia di limitazione all'uso di contanti e assegni, di tracciabilità dei pagamenti, di tenuta da parte dei professionisti di conti correnti dedicati.
  CONTINUA ...»

13 Ottobre 2009
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