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IDEE / Salviamo le aziende, non gli azionisti

di Francesco Gaetano Caltagirone (*)

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14 febbraio 2010
Salviamo le aziende, non gli azionisti. Nella foto Francesco Gaetano Caltagirone (Emmevi)

A quasi un anno e mezzo dal fallimento di Lehman Brothers e dall'irrompere nell'economia globale della sfiducia nei confronti degli intermediari bancari e finanziari, è tempo di un esame sereno dei rapporti tra banca e impresa. Nella lunga fase dell'emergenza è comprensibile che tra sistema delle imprese e sistema bancario si alimentassero polemiche. Per molte aziende in difficoltà crescente la maggior prudenza bancaria nell'erogazione del credito è apparsa ingiusta poiché la crisi originava dalle banche. Ora che credito e impresa possono e devono pensare non più solo all'emergenza è bene che le polemiche lascino il campo a considerazioni di ordine fattuale.

Personalmente ritengo che vi siano alcune osservazioni preliminari intorno a ciò che è avvenuto. Da tali osservazioni discendono alcune conseguenze rispetto alle quali vanno commisurati i correttivi prudenziali e gestionali più opportuni. Riduco le osservazioni iniziali a quattro. Investono, in ordine temporale: la natura del modello bancario egemone nel precrisi; la natura della domanda alimentata e sorretta da quel sistema; il criterio selettivo della domanda da sostenere oggi e per il futuro; l'insorgere di nuovi fenomeni di azzardo morale proprio mentre tutti si dicono protesi al contenimento di quelli che hanno provocato la crisi.

Sui limiti e le conseguenze del modello bancario anglosassone descritto come più moderno e innovativo (estensione all'infinito del perimetro del credito attraverso le cartolarizzazioni senza adeguare il patrimonio) molto è stato detto. Per nostra fortuna, il sistema bancario italiano era ancora tra i meno decisamente avviati a quella trasformazione. Per questo siamo stati il paese occidentale che non ha registrato salvataggi bancari pubblici e ha contenuto le stesse garanzie pubbliche bancarie al minimo utilizzo reale. Mi limito a richiamare come tale modello si sia risolto in una specie di sfida impossibile alla legge di gravità. Infatti, la concentrazione eccessiva del rischio ha reso insostenibile, per qualche punto della catena, la gestione dell'onere.

È il fenomeno sul quale continua ad accentrarsi l'attenzione dei regolatori, della politica e della comunità del business. La seconda considerazione riguarda una larga fetta di domanda mondiale che tale sistema ha finito per alimentare negli anni pre-crisi. Si tratta di una domanda la cui natura era da considerarsi ieri e va considerata - oggi e per il futuro - meramente artificiale. Vi ha concorso un'erronea metodologia di valutazione del rischio finanziario delle famiglie. Si è creduto che esso potesse essere diverso da quello praticato per i prestiti alle imprese. Principalmente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si sono indotte quote molto significative di famiglie a indebitarsi oltre il reddito disponibile stesso, cioè le si è spinte a intaccare lo stock patrimoniale che è garanzia per se stessi e soprattutto per le future generazioni. Si è trattato di un grave errore. Solo oggi i mercati iniziano a reagire nel giusto modo al problema della sostenibilità complessiva di un debito nazionale che va considerato nella somma totale di tutte e tre le diverse componenti che lo formano: il debito pubblico, quello delle famiglie, quello delle imprese non finanziarie.

Pur con il nostro 106% di debito pubblico nel 2008, l'Italia vedeva un debito delle famiglie fermo al 39% del Pil, rispetto al 96% degli Usa, al 110% dell'Irlanda, al 100% della Gran Bretagna, al 61,5% della Germania e al 51% della Francia. E anche l'80% sul Pil di debito delle imprese italiane va confrontato con il 165% dell'Irlanda, il 136% della Spagna, il 113% della Gran Bretagna, il 105% della Francia. Per questo, oggi, oltre che per la prudenza di bilancio del Tesoro, nel mercato dei debiti sovrani l'Italia si trova dopo molti anni a rischiare assai meno di altri. Grazie a questo eccesso di debito insostenibile alimentato dagli intermediari finanziari, le famiglie sono state indotte negli Usa e in vasta parte dell'Europa a consumi aggiuntivi artificiali. Bisogna dare per scontato che per un lungo lasso di tempo la domanda di quei consumi non potrà tornare al livello pre-crisi.

Una terza considerazione riguarda la natura della domanda che va sostenuta oggi dal sistema bancario e dalle politiche economiche e monetarie. A fronte della caduta dei consumi, la reazione istintiva che si produce in molti paesi è tentare di sostenere i livelli di domanda ai livelli precedenti la crisi. Anche in questo caso si tratta di un errore. Lo sforzo principale va destinato al sostegno di quella che può e deve essere considerata la domanda "naturale", non quella artificiale. L'imprenditore vero è colui che soddisfa la domanda che c'è: quella di cui il sistema ha bisogno, non quella creata artificialmente. La domanda "naturale" oggi in Italia è la domanda di infrastrutture. Diversamente, continuerà il falò degli stock patrimoniali dei consumatori, per un brusco e temibile risveglio di consapevolezza quando i tassi muteranno il loro segno. Si tratti di spingere all'acquisto di una nuova auto scontata per via degli incentivi pubblici ogni tre anni anziché quattro o di un qualunque altro bene di consumo non durevole, il voler giustificare tali scelte con la difesa dei livelli di occupazione precedentemente raggiunti dai diversi settori interessati determina un'uscita ritardata dalla crisi, a sua volta foriera di instabilità e distorsioni ulteriori.

  CONTINUA ...»

14 febbraio 2010
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