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IDEE / Al rilancio serve pure l'impresa taglia maxi

di Fabrizio Onida

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14 ottobre 2009


I l rimbalzo nel livello di produzione, fatturato e ordinativi dell'industria manifatturiera c'è, emerge chiaramente dai dati mensili dell'Istat che confrontano il trimestre estivo con il precedente. Ma come stiamo uscendo dalla recessione più grave del dopoguerra?
Va notato che i rimbalzi più forti si registrano, non a caso, nei settori dei beni strumentali e intermedi che hanno sofferto la caduta più pesante dall'inizio della recessione (produzione in flessione del 25-30% dall'estate 2008, contro un modesto -3% di alimentari e addirittura un +2% dei farmaceutici). Un inizio di ripresa è quanto mai benvenuto, ma dopo il primo rimbalzo tecnico questi settori, che hanno subìto il maggior crollo della domanda di mercato, faticheranno di più a recuperare i livelli precedenti la discesa. Né si può ancora escludere uno scenario sfavorevole di ricaduta nel 2010 (cosiddetta recessione e ripresa a W). Il costo di una profonda crisi, seguita da una lenta rimonta, non è solo la disoccupazione in aumento per diversi mesi con relativo allargamento della platea di famiglie in condizioni di povertà, ma anche un pericoloso scalino verso il basso nel percorso di crescita futura del paese, a causa di tagli a progetti di investimenti materiali e immateriali volti a ridimensionare i livelli di capacità produttiva delle imprese, provocando anche perdita e obsolescenza di lavoratori qualificati.
L'indagine semestrale UniCredit su 2.900 imprese industriali conferma che, nei due anni trascorsi dal settembre 2007, la produzione manifatturiera è caduta in Italia (-24%) più che in Germania (-20%) e in Francia (-15%): risultato di una relativa tenuta in alcuni comparti della moda e una flessione più pronunciata in altri (ben più pesanti in termini di occupati e valore aggiunto) come metallurgia, meccanica, autoveicoli, elettronica. Ancora a luglio il saldo tra giudizi negativi e positivi sul livello degli ordini e della produzione manifatturiera risultava ai minimi storici. Ma a questa situazione come reagiscono e come dovrebbero reagire le imprese e le banche?

L'indagine conferma l'esistenza di una fascia (purtroppo solo il 10% del campione di 2.900 imprese piccole e medie) che sembra investire nel futuro, puntando su innovazioni come gamma più alta di prodotti, marchi, comunicazione e pubblicità, rete organizzativa, alleanze strategiche, delocalizzazione mirata a ridurre i costi e penetrare più profondamente i mercati in crescita. Questa fascia di imprese si comporta secondo la ricetta schumpeteriana di "prosperare nell'avversità" attraverso investimenti che guardano avanti, oltre i condizionamenti della congiuntura.

Come segnala la nuova rubrica "Schumpeter" nel primo numero di ottobre dell'Economist, la storia dalla Grande Depressione al secondo dopoguerra è ricca di esempi (da Dupont a Ibm, Intel, Microsoft, Cisco, Nokia) di gruppi cresciuti da piccole dimensioni a leader mondiali, proprio attraverso un continuo riposizionamento di prodotti e servizi per rispondere alla morsa del declino e della concorrenza anche nelle fasi di congiuntura avversa, puntando su ricerca e innovazione tecnologica e organizzativa. Anche in casa nostra, come racconta Pasquale Pistorio già guida di St Microelectronics, l'avere con coraggio e lungimiranza scommesso anni fa su investimenti di nuova capacità innovativa, proprio mentre i maggiori concorrenti nel settore della componentistica elettronica avanzata adottavano strategie di ripiegamento nella bassa congiuntura, ha generato una rapida scalata competitiva di questo (purtroppo unico) grande gruppo hi-tech a capitale italo-francese.

Il pur vivace dinamismo di tante Pmi dentro e fuori dai classici distretti industriali, che spesso giustamente ci richiama Marco Fortis col suo osservatorio Symbola-Fondazione Edison, non può farci dimenticare che, senza il traino dei gruppi leader di medio-grandi dimensioni che presidiano i mercati finali, è messa a repentaglio una larghissima fascia di Pmi fornitrici di prodotti intermedi e componenti proprio a quegli stessi gruppi italiani ed esteri. Le filiere produttive si organizzano sempre più su relazioni di fornitura e subfornitura (outsourcing domestico e internazionale) in cui i grandi produttori e distributori di beni finali di consumo e di investimento sono i motori terminali di un sistema estremamente articolato e interdipendente di prodotti e mercati.

Si stima che la sola Microsoft faccia muovere nel mondo 6 milioni di addetti e 500 miliardi di dollari di fatturato, tra fornitori di prodotti e servizi di supporto e distribuzione. Certo in Italia non abbiamo né avremo mai fenomeni alla Microsoft e simili. Ma il problema è che stiamo assistendo alla graduale scomparsa dei grandi gruppi, e temo sia illusorio pensare di compensarli con la pur vivace crescita delle Pmi, per non parlare delle microimprese (che occupano circa il 50% degli addetti in industria e servizi, il doppio che nella Ue a 27), tanto meno dei lavoratori individuali indipendenti (un terzo del totale degli addetti contro il 12% della Ue). Secondo l'ufficio studi di Mediobanca, nella sola Lombardia negli ultimi 30 anni sono scesi da 304 a 98 gli impianti con più di 500 addetti, con un calo di occupati da 380mila a 90mila unità.

  CONTINUA ...»

14 ottobre 2009
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