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Le banche italiane, insisto, sono nella condizione di rompere il fronte delle resistenze ottuse, di chiamare a farlo altre banche europee e di avvalersi di ciò per discutere a viso aperto le riforme, evitando che sia il populismo vendicativo a prevalere nella loro confezione. Da un lato devono far capire alle loro consorelle che è bene levarsi dalla testa i profitti di questi anni, i profitti fondati cioè sulla dilatazione dei debiti erogati su una base sempre più ristretta di capitale. Dall'altro devono aiutare il legislatore non a non fare riforme, ma a non fare quelle sbagliate.
Può aver ragione Donato Masciandaro (si veda Il Sole 24 Ore del 12 novembre) quando scrive che lo spezzatino non è necessariamente il miglior antidoto al rischio sistemico. E lo stesso Draghi ha negato che vi siano modelli di assetto bancario di cui si possa dire che sono più fragili di altri. Quanto ai derivati, sarebbe tanto velleitario quanto sbagliato vietarli. Ma è chiedere troppo pretendere che chi li emette ci metta sopra un po' dei suoi soldi e testimoni così la qualità del rischio mantenendone una parte su di sé? Giulio Tremonti pensa anche a questo quando dice che gli impegni ex ante sono meglio delle tassazioni ex post. E non è affatto un'idea sbagliata, come non è sbagliato che i bonus siano non aboliti, ma correlati a risultati più di medio che di breve periodo.
Insomma un terreno di discussione c'è e le banche sono le prime interessate aportarcisi senza remore per contribuire ai cambiamenti che sono necessari, sapendoli distinguere (e aiutando a distinguerli) da quelli punitivi. Se in giro si prende invece a pensare "passata è la tempesta, odo banche far festa", la festa durerà davvero poco.