Di fronte al diluvio di disastri che si è abbattuto su Haiti negli ultimi anni si sarebbe tentati di concludere che ormai il paese caraibico sia senza speranza. Anche prima che un fortissimo terremoto trasformasse gran parte della capitale, Port-au-Prince, in un cumulo di calcinacci, gli haitiani erano già accomunati dal trauma condiviso della memoria collettiva.
Fin da quando Haiti ha conquistato l'indipendenza, nel 1804, il paese si è distinto per la sua capacità di produrre milioni di rifugiati e almeno 34 colpi di stato, ma non è riuscito a raggiungere nemmeno i livelli più elementari di sviluppo economico e sociale. Anche se gran parte della colpa è attribuibile all'egoismo di generazioni di leader haitiani, preoccupati più del proprio potere che del proprio popolo, i paesi occidentali hanno giocato un ruolo di supporto fondamentale, massacrando Haiti di interventi militari, accordi commerciali iniqui e isolamento politico. Durante la Guerra Fredda, il sostegno americano al regime devotamente anticomunista dei Duvalier venne in soccorso di una dittatura odiosa.
Dopo le prime elezioni democratiche di Haiti, nel 1990, il Paese subì gli effetti dell'altalenante braccio di ferro fra istinti umanitari e istinti punitivi nella politica estera statunitense, con i leader haitiani alternativamente blanditi e rampognati, celebrati e censurati, a seconda dei capricci dei governanti di Washington. La figura che più di ogni altra incarna le stridenti contraddizioni dell'Haiti moderna è l'ex presidente Jean-Bertrand Aristide, che per due volte è stato cacciato dal potere, nel 1991 e nel 2004. Aristide resta amato e vituperato, e la sua permanenza al potere è il fattore che più ha contribuito a svuotare, e forse tradire, il corpus politico haitiano. Resta tuttavia il fatto che la sua elezione, nel 1990, e il suo reinsediamento per mano delle forze Usa nel 1994 (dopo un golpe, nel 1991, che lo aveva costretto all'esilio per tre anni) rimangono gli unici due momenti di giubilo nazionale che Haiti abbia vissuto negli ultimi vent'anni. In tempi più recenti, il presidente René Préval, eletto nel 2006, ha realizzato qualche graduale passo avanti, e la povertà endemica, la totale assenza di una rete di sicurezza sociale e la vulnerabilità a uragani e tempeste tropicali hanno piegato, ma non hanno spezzato lo spirito degli haitiani. Ora, di fronte a un disastro quasi apocalittico per dimensioni, ci si chiede fino a che punto il popolo di Haiti potrà continuare a sopportare tante sofferenze.
Quasi tutti concordano che Haiti è uno dei Paesi più problematici del pianeta, ma le cause precise di questa turbolenza politica ed economica apparentemente senza fine sfuggono a qualsiasi facile tentativo di classificazione. Haiti non è in guerra con i suoi vicini, e nemmeno deve fare i conti con una guerriglia violenta al suo interno. Le forze armate dell'isola, un tempo fra le più feroci delle Americhe, sono state smantellate e sostituite con una forza di polizia che è corrotta e incompetente, ma che non può essere seriamente definita una forza di repressione. Haiti viene spesso descritta come uno "Stato allo sbando", ma non mostra segnali di un'imminente scomposizione territoriale, e si può dire che dal punto di vista culturale sia una delle nazioni più coese dell'emisfero occidentale. Tutti gli haitiani parlano la stessa lingua, il creolo, e la stragrande maggioranza di loro è di origine africana. Le occasionali, drammatiche esplosioni di violenza politica hanno creato la diffusa impressione che Haiti sia un Paese implacabilmente violento, ma il tasso di omicidi a livello pro capite sull'isola, in realtà, è parecchio più basso di quello di molti altri Paesi dell'America Latina e dei Caraibi. Considerando la debolezza dello Stato haitiano, la povertà profondamente radicata, l'assenza di reti di sicurezza sociale e la grande diffusione di armi in tutto il Paese, è sorprendente che fino a questo momento Haiti sia riuscita a evitare le grandi conflagrazioni e le violenze di massa che si sono verificate in molti Paesi africani. Haiti, pur con tutti i suoi problemi, non è il Congo, la Somalia, il Sudan o lo Zimbabwe. Può evocare immagini di pneumatici dati alle fiamme, proteste accese e malcostume politico, ma soldati bambini, pirati o campi di sterminio sono fenomeni quasi del tutto assenti.
Almeno fino al 12 gennaio, quando il terremoto di magnitudo 7.0 scatenato dall'insensibile mano della natura ha trasformato la sterminata Port-au-Prince in una città di fantasmi, disseminata di edifici crollati avvolti in un sudario irreale di polvere grigia. In un istante, gli edifici si sono trasformati in macerie e le case in tombe. Perfino le orgogliose strutture che offrivano una parvenza di autorità e ordine al caos della vita haitiana giacciono in rovina. L'Hotel Christopher, che era usato come centro di comando per la forza di peacekeeping dell'Onu, forte di 9000 uomini, è stato distrutto, aggiungendo buona parte dei vertici della missione alla lista delle possibili vittime. Il Palazzo Nazionale, un edificio assurdo nella sua bellezza e leggerezza in mezzo allo squallore del centro di Port-au-Prince, è stato frantumato e raso al suolo. Quando la Cnn ha chiesto al presidente Préval dove avrebbe dormito ora, lui ha fissato nel vuoto e ha detto: «Non lo so», vivendo, almeno per un momento, il senso di spiazzamento e incertezza che migliaia di haitiani vivranno per mesi a venire. Il numero di persone colpite dal sisma potrebbe raggiungere i 3 milioni, quasi un terzo della popolazione dell'isola. Nel frattempo, non essendoci alcun modo per saperlo, le stime sul numero delle vittime rimbalzano per tutta Port-au-Prince e per tutto il mondo. Quanti sono i morti? Il numero di morti confermati è di qualche centinaio, ma le stime schizzano rapidamente a decine e poi centinaia di migliaia. Il senatore haitiano Youri Latortue ha azzardato che potrebbe essere rimasto ucciso mezzo milione di persone, e nel delirio del momento tutto sembrava possibile.
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