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L'ultimo muro della guerra fredda

di Simon Schama

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16 ottobre 2009
(Grazia Neri)

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Questi vecchi campi minati non sono l'unica cosa instabile di un armistizio che dura da 56 anni. A intervalli di qualche anno si verifica immancabilmente un "incidente" che stempera l'assurdità. Nel 1976, una pattuglia inviata a potare alberi, che secondo i nordcoreani aveva violato l'armistizio, fu attaccata a colpi di accetta e due ufficiali rimasero uccisi. Il soldato Hauch non dice quando si è verificato l'ultimo "incidente", ma lascia intendere che non sono rari. I Chinook parcheggiati sulla pista d'atterraggio per elicotteri sembrano pronti a entrare in azione, e il piccolo contingente di soldati Onu rimane in stato di massima allerta per via della sensazione, non infondata, che da Kim Jong-il giochi non ci si può aspettare che giochi secondo le regole, specialmente se è vero che è malato e che sta per scatenarsi la lotta per la successione.

Perché Kim Jong-il indossa l'uniforme di un maoista, ma gestisce il suo ruolo come un gangster. Traffico di droga e contraffazione garantiscono gli introiti da usare per la partita nucleare. In una risposta infuriata alla condanna pronunciata dalle Nazioni Unite per il test nucleare sotterraneo di maggio (di potenza più o meno pari a quella della bomba sganciata su Hiroshima), il Caro Leader ha dichiarato, il 27 maggio, che la Corea del Nord non era più vincolata dall'armistizio; il che significa, tecnicamente, che la guerra fra la Corea del Nord e l'Onu si sta scaldando.

Certo, è difficile farsi prendere dalla tremarella assistendo, a due chilometri di distanza, al ritualizzato marameo reciproco alla fratelli Marx, roba che ci vorrebbe una combinazione di Joseph Heller, Voltaire e Jaroslav Hašek (l'autore de Il buon soldato Sc'vèik) per rendere giustizia alla sua follia. I negoziati per l'armistizio originale e qualunque discussione sulle violazioni del medesimo vengono condotti all'interno di capannoni lunghi e bassi, dipinti rispettivamente in celeste per l'Onu e in argento per i nordcoreani. Due grandi edifici si fronteggiano, in emblematica ostilità. Il nostro, quello sudcoreano, chiamato Casa della libertà, sfoggia pavimenti in granito, cromature lucide e porte di vetro.

Il loro - ottimisticamente battezzato Casa del benvenuto - è un accrocco messo insieme ispirandosi all'Almanacco dello stile architettonico di Leonid Brezhnev. Quando ha visto che la Casa della libertà era diventata più alta della sua consorella del nord, Pyongyang ha presentato una protesta e ha aggiunto un piano con pareti di vetro alla sua costruzione. Le guardie sudcoreane stanno in piedi dietro alle capanne blu, la metà esatta della testa protetta da elmetto nascosta dai muri, l'altra metà esposta al nemico, i pugni stretti lungo i fianchi che sembra stiano facendo un'audizione per un film di arti marziali. I loro colleghi dell'altra sponda si aggirano furtivi sulla terrazza del Benvenuto, fermandosi per brandire un aggressivo binocolo nella nostra direzione. Ma dal tetto della Casa della libertà, con binocoli molto più grandi, li puoi sbirciare mentre ci fissano. Devo purtroppo riferire che il nemico riesce a guardarci molto più in cagnesco di noi.

È tutto così meravigliosamente folle, un museo vivente della pazzia della guerra fredda, che bisogna fare mente locale per ricordarsi che dietro quel reciproco guardarsi torvi c'è in gioco, in realtà, qualcosa di profondamente serio, che rimane importante nonostante tutto il parlare che ne fanno politici sbruffoni, ed è il prezzo da pagare per la sopravvivenza della libertà.

Le garitte accanto all'autostrada che corre verso Sud lungo il corso del fiume Han, fino a Seul, potrebbero sembrare marginali rispetto alla sopravvivenza di una delle società politiche più vivaci e complesse di tutta l'Asia, ma non lo sono. Nessuno pensa che l'esercito del popolo possa riversarsi sulla strada 77 e arrivare alla capitale. Ma lo scopo delle fanfaronate delle forze armate di Pyongyang è ricordare agli Stati Uniti - e probabilmente anche alla Russia e alla Cina - che il regime nordcoreano, seminatore di zizzania, ultima vera dittatura comunista (senza contare la boccheggiante Cuba), può creare grandi problemi, attraverso rapporti clandestini con forze terroristiche e guerrigliere in lotta contro gli americani nell'Asia occidentale o attraverso governi compiutamente antiamericani come quello iraniano.

Per quanto remota ed esoterica possa apparire, la storia coreana rappresenta un utile insegnamento sugli scopi e la legittimazione dell'uso della forza militare per proteggere, stabilizzare e consentire la sopravvivenza di democrazie fragili lontano dall'Occidente. Barack Obama, ora che è intento a considerare le alternative sempre più ridotte che si trova di fronte in Iraq e in Afghanistan, forse non farebbe male ad analizzare la storia moderna della penisola coreana. Nel gennaio del 1950, il solitamente cauto segretario di Stato di Harry Truman, Dean Acheson, trascurò d'includere la Corea in una dichiarazione sul perimetro di difesa irrinunciabile in Asia orientale. Quello fu il semaforo verde che autorizzò Kim Il-sung e i suoi protettori Stalin e Mao a credere che la Corea del Nord avrebbe potuto sconfiggere il Sud senza incontrare una seria opposizione. La decisione di Truman d'inviare le truppe e l'impegno dell'Onu di opporsi all'aggressione furono il frutto della convinzione che la credibilità dello scudo americano per le democrazie che stavano emergendo dopo la Seconda guerra mondiale, in Europa, in Asia e soprattutto in Giappone, non sarebbe sopravvissuta a una caduta della Corea del Sud.

  CONTINUA ...»

16 ottobre 2009
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