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L'ultimo muro della guerra fredda

di Simon Schama

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16 ottobre 2009
(Grazia Neri)

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Truman si sbagliava? La guerra che nel 1953 si arenò in un acrimonioso stallo costò la vita a 36mila soldati americani, decine di migliaia di altri soldati dell'Onu e 353mila militari coreani dell'una e dell'altra parte, oltre a 2,5 milioni di civili coreani. Fu, come ci ricorda David Halberstam nel libro The Coldest Winter (2007), un orrore disumano. E quando fu finito, non era affatto chiaro se la Corea che era sopravvissuta a sud del 38° parallelo fosse almeno da qualche punto di vista, come sosteneva la retorica trumaniana, uno Stato autenticamente libero, e non semplicemente non-comunista.

La paranoia della guerra fredda spinse gli americani a chiudere un occhio sui governi autoritari che si successero a Seul e sulla persecuzione di qualunque esponente di opposizione che potesse essere tacciato di orientamenti di sinistra. Solo tardivamente il governo americano venne in aiuto di paladini dei diritti civili come il defunto presidente sudcoreano Kim Dae-jung. Ci volle l'atrocità del massacro di Kwangju, nel 1980, e lo sdegno per la brutale repressione del movimento per la democrazia perché i sudcoreani potessero godere veramente dei frutti della loro liberazione. A prescindere dalle decisioni che verranno prese riguardo ai luoghi dove usare la potenza americana per proteggere democrazie elettorali ancora fragili in Asia e in Medio Oriente, inevitabilmente assisteremo anche lì a simili, strazianti complicazioni.

Il che, però, forse non significa che il gioco non valga la candela. Il contrasto fra lo squallore, la crudeltà e l'autolesionismo della tirannia nordcoreana e la straordinaria energia economica e culturale del Sud è quanto mai istruttivo. Nonostante la recessione, l'economia sudcoreana è una meraviglia dell'intraprendenza imprenditoriale moderna. A differenza della maggior parte delle economie occidentali, la Corea del Sud fabbrica automobili, telefoni cellulari e prodotti elettronici vendibili in tutto il mondo. E se è vero che questi successi arrivano al prezzo di un costo della manodopera molto basso, non è qualcosa che si percepisca girando nel centro di Seul il sabato sera. Le strade sono stracolme di una folla chiassosa, prevalentemente di giovani, che prende d'assalto i bar. I venditori ambulanti fanno grandi affari, ma anche i commercianti che vendono scarpe da ginnastica e vestiti casual colorati con quelle puerili tinte pastello che i coreani sembrano prediligere.

Forse il diritto a consumare senza freni non può essere messo sullo stesso piano delle Quattro Libertà che Franklin Delano Roosevelt indicava come ragione per prendere le armi contro l'autoritarismo. Ma il consumo non è solo scarpe da ginnastica e jeans: è anche la scelta di abbracciare o rifiutare una religione (le guglie delle chiese sono onnipresenti in Corea del Sud); è il diritto a elezioni libere e corrette e a leggere e dire quello che si vuole senza che di regola (ma non proprio sempre) la polizia ci trovi qualcosa da ridire; e il diritto a innestare sul tronco della cultura tradizionale il germoglio della moderna temerarietà.
In una notte in cui Sirio brilla in cielo, di fronte al municipio di Seul ho ascoltato, insieme a una grande folla, l'elettrizzante concerto dei Moreum Machi, una band new-wave Korean che fornisce nuova linfa alle percussioni tradizionali. Un uomo vestito con una specie di toga percuoteva un immenso tamburo verticale appeso, mentre quattro giovani percussioniste estraevano dai loro tamburi un suono violento ed estatico nella vellutata oscurità della notte. Un'esplosione di suono che appariva particolarmente appropriata per quel paese di frontiera che è la Corea del Sud: il tamburo è la voce di un esercito, ma quella notte, in quel luogo, era anche la voce di una giubilante libertà.

Simon Schama è editorialista del Financial Times
(Traduzione di Fabio Galimberti)

16 ottobre 2009
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