Pubblichiamo stralci da un appunto di Marco Biagi, il giuslavorista ucciso dalle Br il 19 marzo del 2002, scritto
nel 2001 per l'allora ministro del Lavoro Roberto Maroni
Una delle priorità nella agenda della modernizzazione è certamente quella della flessibilità in uscita. Il nostro sistema è più rigido e antiquato di quello esistente in molti dei nostri partners europei. Oltre a ciò è chiaro che se abbiamo un alto tasso di rigidità in uscita rispetto alla disciplina del lavoro subordinato standard, a tempo indeterminato e iperprotetto i nostri datori di lavoro ricorreranno sempre di più al lavoro flessibile (ai contratti a termine, al lavoro interinale, alle collaborazioni coordinate e continuative, ecc., quando non al lavoro "nero").
(...)
Il tema della flessibilità in uscita può essere affrontato anche sul versante di una incisiva riforma dell'arbitrato in materia di lavoro, senza che ciò significhi svuotare il ruolo della magistratura. All'arbitro dovrebbe essere assegnato soprattutto il potere di decidere in concreto sulla controversia che gli viene sottoposta, tenendo conto di tutte le circostanze del caso (condizioni del mercato del lavoro locale, stato personale e familiare della persona licenziata, gravità dell'inadempimento contestato, ecc.) rispetto all'entità della sanzione da indirizzare al datore di lavoro qualora riscontri la non legittimità di un licenziamento. L'obbligo di reintegrazione ex articolo 18 Statuto dei lavoratori dovrebbe restare solo in caso di licenziamento discriminatorio e quindi viziato da nullità radicale: non essendosi mai risolto il contratto, dovrebbe potersi dedurre il suo pieno ristabilimento. Per il resto l'arbitro dovrebbe potersi muovere come se avesse di fronte sempre una stabilità "obbligatoria" con la possibilità di condannare il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria che ristori adeguatamente il lavoratore dal danno subito.
D a valorizzare c'è dunque il principio fondamentale della celerità del giudizio. Ma perché l'arbitrato possa diventare una via concretamente praticabile è necessaria una politica promozionale piuttosto forte. Ci vogliono anche collegi arbitrali stabili, organizzati su base territoriale come dovrebbe avvenire in base ai contratti del pubblico impiego e, in più, norme che puntellino la resistenza del lodo arbitrale a fronte delle prevedibili impugnazioni davanti alla magistratura del lavoro, così da evitare di duplicare ancora una volta le sedi di risoluzione delle controversie. Ma anche su questi ultimi due punti il disegno di legge delega governativo mi sembra sufficientemente chiaro e soddisfacente.
Non credo che realisticamente qualcuno possa pensare che nel nostro Paese debba essere introdotta la libertà di licenziare. Questa libertà sarebbe comunque impedita dalla stessa Carta Sociale Europea che vuole che i licenziamenti siano giustificati, e quindi sindacabili (articolo 24). Non sono questi i termini della questione.
La regola fondamentale resta quella per cui gli atti estintivi del rapporto di lavoro devono essere giustificati e motivati dal datore di lavoro, nonché sottoposti eventualmente al vaglio di un'autorità indipendente. Il giusto punto di equilibrio è una riforma legislativa che sostituisca la reintegra nel posto di lavoro (oggi quasi sempre automatica nei casi di licenziamento) con il pagamento di un indennizzo. E questa non è libertà di licenziare tout court.
Credo però che allo stesso tempo si debbano anche stimolare gli imprenditori a stipulare contratti di lavoro a tempo indeterminato. Bisogna dare loro incentivi seri, affinché appunto si innalzi allo stesso tempo anche la qualità del lavoro, come ci chiede l'Unione europea.
Due proposte sarebbero davvero utili in proposito: rendere la reintegrazione non obbligatoria e allungare il periodo di prova, almeno fino a un anno. La flessibilità in entrata serve spesso ad aggirare il periodo massimo di prova (sei mesi): questo non lo dice nessuno ma sindacati e imprenditori sanno bene che è la verità.
Il confronto internazionale
Il miglior punto di osservazione resta l'Europa. Il prezzo più alto pagato dal nostro sistema è certamente quello dello svantaggio competitivo che sopportiamo rispetto alle imprese di altri paesi Europei. Il nostro ordinamento del lavoro non è in linea con quello degli altri Paesi in Europa. Dovremmo guardare con più attenzione alle soluzioni che già operano in altri Paesi, perché specie in questa fase di elaborazione progettuale possono essere molto utili.
Molti ordinamenti europei non hanno l'istituto della reintegrazione sul posto di lavoro del nostro articolo 18 dello Statuto. Il Belgio ad esempio ha un sistema in cui in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore può pretendere esclusivamente il risarcimento del danno subito. Così accade anche in Danimarca, dove per esempio il risarcimento non è certo di minima entità e può arrivare anche ad un anno di retribuzione e in Finlandia dove il lavoratore può pretendere in caso di licenziamento illegittimo oltre al risarcimento del danno anche una serie di interventi formativi a carico del datore di lavoro che gli consentano di conservare o gli permettano di migliorare il livello di professionalità acquisita.
CONTINUA ...»