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SQUILIBRI EUROPEI / Le lezioni sbagliate della formica tedesca

di Martin Wolf

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17 marzo 2010

La settimana scorsa la "Cirmania" ha parlato e il mondo l'ha ascoltata. Diceva qualcosa di coerente? No. Di moralistico? Sì, molto. Di pericoloso? Sì. Potranno prevalere opinioni più sagge? Ne dubito.

Avrete sentito parlare della Cimerica, un neologismo coniato dallo storico di Harvard Niall Ferguson e da Moritz Schularick della Libera Università di Berlino, per descrivere una presunta fusione tra l'economia americana e cinese. E della Cindia, inventata dal politico indiano Jairam Ramesh per descrivere il nuovo, composito gigante asiatico. Lasciate che vi presenti la Cirmania, la somma dei due maggiori esportatori netti al mondo: la Cina che quest'anno dovrebbe avere un surplus di 291 miliardi di dollari della bilancia commerciale e la Germania che arriverà a 187 miliardi.

I due paesi sono molto diversi, ovviamente, eppure nonostante le differenze condividono alcune caratteristiche. Entrambi ritengono che i loro clienti devono continuare ad acquistarne le merci, ma che si indebitino in modo irresponsabile. Siccome il loro surplus implica il deficit di altri, è una posizione contraddittoria. I paesi con un surplus devono finanziare quelli in deficit; se il debito cresce troppo però, il debitore è a forte rischio di default. Quando succede, i vantati risparmi dei paesi con un surplus si rivelano un'illusione.
Comincio a chiedermi se l'economia globale e aperta riuscirà a sopravvivere alla crisi. Anche la zona euro corre pericoli che la settimana scorsa sono stati illustrati alla perfezione dagli interventi del primo ministro cinese Wen Jiabao e del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble.

L'argomento di Schäuble non riguardava il discusso Fondo monetario europeo, che nemmeno se fosse accettato e creato sarebbe in grado di allentare le pressioni esercitate dai grandi squilibri macroeconomici all'interno della zona euro. Le idee centrali del ministro tedesco erano che gli aiuti di emergenza per i paesi con un deficit fiscale eccessivo devono accompagnarsi a penalità severe; che i diritti di voto dei membri dell'Unione che si comportano male vanno sospesi, e che un paese può uscire dall'Unione monetaria restando lo stesso nell'Unione europea.

All'improvviso, la zona euro non è più così irrevocabile: lo dice la Germania. Dell'atteggiamento del più potente paese europeo, vorrei sottolineare tre aspetti: avrebbe un impatto prevalentemente deflazionistico; sarebbe inapplicabile, e potrebbe spianare la strada a un'uscita della Germania stessa dalla zona euro.

Del primo aspetto, ho scritto la settimana scorsa: se la Germania ottiene ciò che vuole, la seconda economia del mondo intralcerebbe la ricerca di un rimedio al calo globale della domanda aggregata. Invece di soddisfare la domanda mondiale con le sue esportazioni, la zona euro produrrebbe un eccesso di offerta.
Immaginiamo che i paesi più deboli della zona euro siano costretti a contrarre in modo deciso il proprio deficit fiscale. Tutta l'economia della zona euro ne risentirebbe. Ma anche la situazione fiscale della Germania e della Francia si deteriorerebbe. Immaginiamo ora che la Germania stringa la cinghia. Ingiungerebbe alla Francia di fare altrettanto? Dopotutto, stando alle previsioni dell'Ocse, quest'anno il deficit generale del governo francese si aggirerà attorno al 9% del prodotto interno lordo. Il ministro Schäuble crede che la Francia possa essere multata? No, di certo. Eppure non sono le finanze pubbliche della Grecia (di peso marginale), a minacciare la stabilità della zona euro, ma la finanza pubblica dei grandi paesi. E siccome la Germania non può costringerli a rigare dritto e non ha alcuna possibilità di espellere un paese che non le garba dalla zona euro, sarebbe costretta ad abbandonarla. Questa è la logica delle idee del ministro Schäuble, e sarà ovvia anche a lui.

La Germania si trova in un'Unione monetaria presunta irrevocabile con alcuni dei suoi principali clienti. Ora Berlino vuole che usino la deflazione per tornare a prosperare in un mondo in cui la domanda aggregata soffre di debolezza cronica. Anche il primo ministro Wen la pensa così, ma l'economia che a suo avviso dovrebbe perseguire quello scopo è quella americana. Auguri!

Nel suo discorso in chiusura del Congresso nazionale del popolo, Wen ha dichiarato: «Non capisco che si svaluti la propria moneta e si faccia pressioni su altri perché la rivalutino, con l'obbiettivo di aumentare le proprie esportazioni. A mio parere, si tratta di protezionismo». Ha anche sottolineato che era preoccupato per la sicurezza degli investimenti in dollari della Cina.
Con questo, mi domando cosa intende dire il primo ministro Wen, se non che gli Stati Uniti non si devono intromettere nelle decisioni cinesi in materia di tassi di scambio? Se il desiderio degli Stati Uniti di avere un dollaro più debole è «protezionista», come definire la determinazione della Cina a tenere basso il valore della sua moneta, qualunque cosa accada? Non c'è nulla di particolarmente protezionista nel chiedere a un paese con un enorme surplus commerciale di ridurlo in un periodo di domanda globale debole. Se capisco bene la posizione conclamata della Cina, vuole invece che per tornare competitivi gli Stati Uniti creino deflazione attraverso una contrazione fiscale e monetaria e, si presume, un calo dei prezzi interni. Per gli Stati Uniti sarebbe tremendo. Ma lo sarebbe anche per la Cina e il resto del mondo. Oltretutto non succederà e la Pechino lo sa di sicuro.

  CONTINUA ...»

17 marzo 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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