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Le riforme solo ponte tra politica e economia

di Giuliano Amato

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Domenica 18 Aprile 2010

Non credo di stupire i lettori, se dichiaro il mio totale accordo con quanto ha scritto mercoledì scorso il direttore del Sole 24 Ore, Gianni Riotta. Le riforme che ci interessano sono quelle che ci possono aiutare a non trovarci, fra qualche anno, più vecchi e meno ricchi, anzi - osserveranno molti italiani - più vecchi e più poveri. Per questo vediamo l'economia al primo posto con tutto ciò che essa porta con sé, dalla cattura sul mercato di quelle risorse per gli investimenti che non possono più venire dal bilancio statale sino alla ricerca, alla formazione e alle altre priorità che stanno ormai diventando giaculatorie senza sostanza.

Detto questo, ho fatto per troppo tempo l'ingegnere delle istituzioni per concordare con chi nega alle riforme delle stesse istituzioni qualunque utilità ai fini dei problemi che interessano davvero. No, questa è un'affermazione troppo drastica e basta parlare con gli operatori stranieri che hanno rinunciato a investire in Italia per sentirsi dire che lo hanno fatto, fra l'altro, per le lentezze e le incertezze dei nostri processi di decisione o perché in pochi altri paesi sono così numerosi i comportamenti d'impresa oggetto d'indagine dall'angolatura del codice penale.

Qualcosa, e forse più di qualcosa da cambiare dunque c'è, ma attenzione. Chi oggi propone una riforma a un paese così fortemente preoccupato del proprio futuro economico ha l'onere di dimostrare che la sua riforma serve davvero a migliorare le cose, si tratti della capacità decisionale degli organi politici o del funzionamento della giustizia. Può darsi che ancora una volta queste proposte cadano nel nulla, specie se dovessero generare tempesta le turbolenze insorte nella maggioranza negli ultimi giorni. E tuttavia vale la pena parlarne e cercare di definire un perimetro di discussione coerente con le preoccupazioni degli italiani. Lasciamo questa volta da parte la giustizia e riflettiamo invece sugli organi politici. Si parla qui di presidenzialismo e, ancor più, di semipresidenzialismo. Eleggere il capo dello stato fornisce le risposte di cui c'è bisogno?
Di sicuro non rende più rapido e più efficiente il processo decisionale.

Se si pensa al presidenzialismo, e quindi alla forma di governo degli Stati Uniti, basta chiedere a Obama quante camicie ha sudato per farsi approvare dal Congresso la sua riforma sanitaria. Se si pensa invece al semi-presidenzialismo, e quindi alla forma di governo francese, si deve constatare che la maggiore facilità del percorso del governo in parlamento negli anni successivi all'entrata in vigore della Costituzione del '58 era dovuta non all'elezione diretta del capo dello stato, ma alla drastica diminuzione dei poteri parlamentari introdotta con quella Costituzione, che aveva fatto del parlamento una sede di mera ratifica delle decisioni del governo.

E qui è importante notare che la riforma costituzionale francese del 2008, in conformità a una tendenza che si è manifestata anche in Germania e nel Regno Unito, ha imboccato l'opposta direzione di un rinnovato rafforzamento del parlamento, rinvigorendo il ruolo delle sue commissioni e limitando a pochissimi casi la facoltà del governo d'imporre con la fiducia l'approvazione d'interi disegni di legge. Che cosa significano questi richiami? Significano che migliorare il processo decisionale politico non passa attraverso l'elezione diretta del capo dello stato, ma investe l'equilibrio da trovare fra le prerogative del governo e la messa a punto di un ruolo del parlamento, di cui le democrazie contemporanee stanno percependo tutta la delicata importanza, allo scopo di garantire, oltre che la velocità delle decisioni, la loro qualità e la loro capacità di avere con sé le variegate realtà dei nostri paesi.

La discussione parlamentare di una legge non è una perdita di tempo, è la fase nella quale i rappresentanti dei diversi orientamenti e dei diversi territori sono partecipi di un'esperienza che comunque li unisce e che li rende tutti corresponsabili del bene comune. Certo può diventare una perdita di tempo, se rimane fine a se stessa e pretende di durare da qui all'eternità. È quindi più che giusto introdurre regole che garantiscano di volta in volta al governo tempi certi di votazione finale. Ma di questo si tratta, non di eleggere il capo dello stato, né di mettere il parlamento in un angolo, rinunciando al collante che in esso prende corpo.

Il collante, e quindi il rinvigorimento dell'unità nazionale, è però uno degli argomenti con cui viene sostenuta quell'elezione, specie in tempi di federalismo annunciato. Il federalismo accentuerà comunque la propensione delle regioni a fare ciascuna per sé, quali che siano i correttivi perequativi introdotti al suo interno. Proprio per questo - si dice - servirà bilanciarlo facendo eleggere il capo dello stato dall'intera comunità nazionale, che in esso potrà così riconoscersi. L'argomento ha un suo fascino, ma analizziamolo bene e cerchiamo di capire se in Italia (perché dell'Italia parliamo) sarebbe non solo affascinante, ma anche realisticamente veritiero.

  CONTINUA ...»

Domenica 18 Aprile 2010
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