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Patto malsano tra Ue e Atene

di Nicola Borri e Pietro Reichlin*

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Domenica 18 Aprile 2010
Patto malsano tra Ue e Atene (foto Reuters)

L'incentivo dei governi a ripudiare il debito estero nelle recessioni economiche è generalmente elevato perché la crisi aumenta il costo sociale di rimborsare i creditori esteri e la punizione che subisce il debitore sovrano dopo un default è poco più di un'esclusione temporanea dal credito internazionale. In effetti, i default sul debito estero sono frequenti. Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff contano almeno 72 casi di ripudi o ristrutturazioni dal 1901 al 2002. In contrasto con queste osservazioni, molti paesi europei, tra cui la Grecia, l'Irlanda e l'Italia, nonostante la fragilità delle rispettive posizioni fiscali e la progressiva perdita di competitività, hanno potuto collocare sul mercato internazionale porzioni crescenti di debito a tassi molto favorevoli. Non dobbiamo stupirci che l'aggravamento della posizione fiscale della Grecia abbia provocato un rialzo degli spread sui titoli di stato e il timore di un default.

I membri dell'Eurozona hanno annunciato l'impegno a fornire alla Grecia fino a 30 miliardi di euro a tre anni a un tasso del 5% circa, inferiore, quindi, di circa 200 punti base rispetto ai tassi di mercato prevalenti fino a pochi giorni prima. L'Fmi contribuirebbe con ulteriori 15 miliardi a un tasso ancora più favorevole. La notizia è stata inizialmente accolta positivamente dai mercati, che hanno risposto con una diminuzione del costo di assicurazione sul default della Grecia e un aumento del prezzo delle obbligazioni sovrane del paese. Si è avuto un effetto positivo anche per il resto dell'Eurozona: rialzi nei principali mercati di borsa e un rafforzamento dell'euro nei confronti del dollaro. Tuttavia, i mercati finanziari sono tornati a penalizzare il debito greco negli ultimi giorni della settimana, quando nuove incertezze sono emerse circa i dettagli e i tempi di attivazione del piano d'aiuto europeo.

L'iniziale reazione positiva dei mercati deriva principalmente dallo sventato pericolo di un default, anche parziale, sul breve termine e una conseguente crisi sistemica europea. Secondo le stime di Barclays Research, il 95% del debito greco è detenuto all'interno dell'Eurozona e principalmente da istituti bancari europei. Se ipotizziamo un default totale della Grecia e un recovery-rate di circa il 70% del valore nominale del debito, la perdita netta sarebbe di circa 90 miliardi di euro. Un default anche parziale della Grecia, grazie alle clausole di cross-default (l'insolvenza per un'obbligazione implica lo stato d'insolvenza su tutti i debiti), avrebbe inoltre un effetto molto forte su chi ha venduto protezione dal rischio di default attraverso i Cds (credit default swap). Il default sarebbe probabilmente seguito dal fallimento di debitori privati greci, che beneficiano di garanzie più o meno implicite basate sui titoli di stato, e da un aumento del rischio di fallimento per altri grandi debitori europei, come l'Irlanda e la Spagna, e forse l'Italia. Il valore del debito di questi paesi si ridurrebbe, colpendo ulteriormente il bilancio degli istituti finanziari europei che hanno in bilancio questi titoli. Chi avesse venduto protezione dal rischio di default di altri paesi europei sarebbe probabilmente costretto ad offrire ulteriori garanzie in seguito al probabile declassamento del debito.

Il raffreddamento della fiducia dei mercati degli ultimi giorni dimostra che le prospettive di lungo periodo restano difficili e non è chiaro come un prestito di 200 punti base inferiore ai tassi di mercato possa da solo risolvere i problemi strutturali che affliggono il paese. Come evidenziato su queste colonne da Alberto Alesina e Roberto Perotti il 27 marzo, la Grecia non soffre semplicemente di una crisi di liquidità ma, piuttosto, di politiche fiscali inadeguate, di un costo del lavoro in aumento e di un incremento vertiginoso del disavanzo commerciale. È opinione comune che le riforme progettate dal governo non risolveranno questi problemi nel medio periodo. Il disavanzo delle partite correnti della Grecia dal 2004 al 2010 è passato da 11 a 41 miliardi di dollari (il 14% del Pil) e non vi è alcun segno che il Pil e la competitività del paese possano tornare a crescere. Ciò implica un ulteriore aggravamento della posizione fiscale nel prossimo futuro e un ulteriore richiesta di aiuti, tenendo conto che il 50% circa del debito greco è in scadenza entro i prossimi 4-5 anni.

Come mai, allora, i mercati finanziari hanno risposto positivamente ai prestiti agevolati dei paesi europei? Evidentemente gli operatori reputano che l'appartenenza al club dell'Unione Europea costituisca una garanzia implicita a carico dei paesi forti dell'Eurozona. Questo determina un sussidio implicito al governo greco, non solo per i bassi tassi d'interesse (al netto del rischio) accordati al suo debito estero, ma anche perché la Bce consente alle banche dell'Eurozona di ottenere liquidità in cambio dei titoli greci in portafoglio. Poiché la Ue non può imporre una "sua" politica economica ai paesi membri, la Grecia ha scarsi incentivi a correggere i propri problemi strutturali e gli squilibri sono destinati a perdurare. Un classico azzardo morale che si potrebbe estendere a molti altri paesi fragili della Ue. Ne deriva una gigantesca redistribuzione di reddito dai contribuenti ai creditori e, alla lunga, minori prospettive di crescita sia per la Grecia che per gli altri paesi dell'Eurozona.

  CONTINUA ...»

Domenica 18 Aprile 2010
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