«Se 20 anni fa un allievo fosse venuto all'esame a dirmi che fine dell'impresa è realizzare profitto non avrebbe avuto la seconda domanda. Oggi invece, in molti atenei, va avanti fino al 30 cum laude». Giulio Sapelli, vecchia guardia olivettiana al servizio dell'accademia (università di Milano), la mette giù così per spiegare quel che è accaduto negli ultimi due decenni circa il nesso tra obiettivi e strumenti d'impresa.
Uno smottamento semantico che ha confuso il fine - migliorare la qualità della vita producendo beni e distribuendo reddito - con il mezzo, ovvero tingere di nero l'ultima voce di bilancio. Un ribaltamento diventato frana in cui, a sentir lui, sono state trascinate multinazionali e società di rating, e perfino governi e banche centrali. L'invisibile pifferaio magico che ne ha guidato la danza ha lasciato cadere dietro di sé parole come merito, bonus, competizione, concorrenza. Fino al ciglio di un burrone che ci riguarda tutti.
Sapelli ricomincia laddove ieri ha concluso Giovanni Bazoli. È stato infatti il presidente di Banca-Intesa, su queste pagine, a mettere in guardia contro un riduzionismo neoclassico diventato mainstream, che ha finito per idolatrare merito e competizione, facendone stelle polari, mal localizzate sul sestante, dell'agire economico.
Nel suo Chiesa e capitalismo (Morcelliana), Bazoli si chiede se il «merito nella conduzione delle aziende» debba misurarsi secondo postulati «di derivazione smithiana». Si domanda se «la soddisfazione di utilità particolari - forti incentivi per i manager, massimo profitto e continuo incremento di valore per gli azionisti - si traduca automaticamente in una crescita del benessere dell'intera collettività». Pone con radicale disinvoltura la capitale questione se sia giusto che «il sistema economico di mercato continui a ispirarsi a questo ethos di stampo calvinista e weberiano» che fa coincidere talenti naturali, successo temporale e benedizione divina, trascurando il nesso necessario «tra la realizzazione dell'interesse particolare (personale o aziendale) con quella dell'interesse generale».
«Bazoli pone problemi assoluti, di frontiera», riflette Luigino Bruni, docente di Economia politica all'università di Milano-Bicocca e teorico dell'economia di comunione. «Da Adam Smith fino alla scuola di Chicago, l'utile collettivo è stato inteso, alimentato, teorizzato come effetto secondario della ricerca delle utilità individuali». Ma nel tempo, i padri sono stati letti in cattive traduzioni e forse fraintesi. Il bene della comunità come sfrido di lavorazione del naturale egoismo individuale ha riempito i manuali di management e ha appiattito la gestione d'impresa a techne dell'utile. Smith, che teorizzava la remunerazione come riequilibrio della scarsità sociale del lavoro - più soldi al minatore che all'impiegato di concetto, se è vero che a scendere in miniera sono in meno a farlo - è stato ridotto a bigino.
Un pensiero ridotto a slogan che ha prodotto quel che Mauro Magatti, preside di Sociologia all'università Cattolica di Milano, nel suo libro più recente (Libertà immaginaria, Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli) definisce turbo-capitalismo. Ovvero l'enfasi assoluta del kairòs economico, il deal fine a se stesso. «Fare soldi per far altri soldi - spiega Magatti - in una corsa che, ha pienamente ragione Bazoli, perde di vista il legame con le comunità di appartenenza. E rischia di smarrire il senso profondo dell'agire economico. Quando il presidente di Banca Intesa afferma che il merito manageriale, spesso tradotto in bonus, deve unire e non dividere mette il dito nella piaga. Abbiamo smarrito il senso del merito e l'etimologia della parola competizione: raggiungere uno scopo insieme, non a danno o contro altri».
Insieme. Termine in questi tempi eretico e profetico al contempo. Che torna come un filo rosso e un po' carsico nella tradizione economica italiana, più propensa di quella anglosassone a riflettere sulla felicità collettiva, fin dai tempo lontani di Delle virtù e dei premi di Giacinto Dragonetti - secolo XVIII - giù giù fino al solidarismo distrettuale teorizzato da Giacomo Beccattini e all'utopia di comunità di Adriano Olivetti. Pensieri eretici che oggi trovano eco negli scritti di filosofi statunitensi come Martha Nussbaum e di Nobel come Elinor Olstrom.
«Prendo quella di Bazoli come una serissima provocazione - spiega il filosofo Salvatore Natoli - quando pone il problema del merito come asse cartesiano da ridefinire, si colloca su una faglia di vera innovazione filosofica: il vero problema di oggi non è premiare i meritevoli, ma portare il maggior numero possibile di persone in condizione di realizzare il massimo delle loro potenzialità».
Adam Smith rivisto e ribaltato: il benessere collettivo non come sfrido degli utili individuali, ma come somma virtuosa degli stessi. Un capitalismo ben temperato, da «accordare su tre canne d'organo: mercato, stato e società civile», spiega Piero Coda, teologo, già docente alla Facoltà Lateranense di Roma e oggi preside della nuova università del movimento focolarino Sophia. I tre soggetti che compaiono al centro dell'enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI. «L'accento peculiare del documento - continua Coda - sta nel riconoscimento e nel sostegno che viene auspicato verso quelle attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono d'informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza rinunciare a produrre valore economico».
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