La riforma fiscale è tornata al centro delle riflessioni politiche, questa volta con la difficoltà ulteriore di conciliare l'imperativo di intervenire e l'impossibilità di incidere sul quantum del prelievo. Non è negativo che la discussione si vada focalizzando sugli aspetti formali del sistema: una reale semplificazione avrebbe, infatti, effetti concreti, come la riduzione dei costi di gestione. Se si vuole avviare una riflessione vera bisogna, però, farlo in modo coraggioso e onesto, prescindendo da interessi particolari e posizioni di rendita.
Le leggi. Sono troppe, scritte male. Generano strutture "mostruose" dei tributi (si pensi all'Irpef). Ci si dimentica però che da decenni, complice il basso apporto tecnico del Parlamento, le leggi le scrive sempre lo stesso soggetto, la burocrazia ministeriale. È evidente che non si possono avere leggi migliori se non si cambia il processo formativo dei provvedimenti.
I tributi. Sono troppi. Alcuni sono arcaici, altri incomprensibili. Ci sono tasse da eliminare o accorpare. Altre da riformulare: che difficoltà ci sarebbe nel trasformare l'Irap in una addizionale Ires, da pagare sul reddito imponibile aumentato di interessi e costo del lavoro? Il carico fiscale sarebbe identico e la faremmo finita con anni di "deliri" sulla prevalenza del bilancio o delle regole del reddito di impresa per calcolare il tributo.
Il federalismo. Occorre ragionare in termini di sostanza, ovvero destinazione delle risorse ed eventualmente deleghe per l'accertamento. Va evitato quello che abbiamo vissuto con l'Ici, tributo per il quale si è creata una Babele di aliquote, detrazioni, obblighi.
Prima di iniziare: l'interpello. Questo istituto oggi non funziona: i dirigenti dell'amministrazione sono terrorizzati dall'idea di dare risposte favorevoli e di risponderne personalmente. Però in un paese civile è impensabile che un contribuente che inizia un'attività non possa concordare preventivamente i dati essenziali della sua fiscalità, sia statale sia locale. Bisogna cambiare le norme e anche la mentalità degli uffici.
Quando si lavora: gli obblighi contabili. Viviamo da decenni su un equivoco di fondo: le scritture contabili rimangono obbligatorie, ma hanno perso completamente la loro valenza, soprattutto a difesa del contribuente. Non si può allora continuare a mantenere obblighi formali che come unico effetto sottraggono tempi e risorse, e generano ansie negli operatori. Si deve valutare la possibilità che, al di sotto di certe dimensioni, i lavoratori autonomi abbiano come unico costo i tributi locali e quelli statali, senza adempimenti formali e costi ulteriori. Così come si dovrà pensare seriamente di mettere mano agli obblighi previdenziali, più vicini all'ottocento che ad un paese moderno.
Le verifiche. Per la massa, dagli anni novanta l'orientamento è chiaro: accertamenti statistici (parametri, studi di settore ecc.) e nessuna verifica analitica. Per i grandi contribuenti, invece, si incrementano le verifiche puntuali: assolutamente corretto, però bisogna evitare che i verificatori siano animati solo da politiche di budget, che muovano rilievi meramente formali, che cerchino a tutti i costi imponibili che non ci sono. Non basta sventolare ogni anno le statistiche sul recupero della Guardia di Finanza, occorre rendere pubblici e trasparenti altri dati: ad esempio quanto dell'accertato viene confermato in commissione tributaria. E andrebbe valutato anche l'operato degli uffici: premi a chi fa accertamenti "giusti", disincentivi a chi con accertamenti folli fa perdere tempo e denaro ai contribuenti e all'Amministrazione.
I comportamenti elusivi. Non è accettabile che manovre di aggiramento consentano illegittimi risparmi di imposta, ma è altrettanto vero che non si può far vivere gli operatori sotto l'incubo che qualsiasi comportamento possa essere visto come "abuso del diritto". Se non si riesce a legiferare in materia, almeno si deve imporre all'amministrazione un atteggiamento di vera apertura agli interpelli e di ragionevolezza nelle verifiche. Altrimenti vengono penalizzati i soggetti che rimangono in Italia e fanno le operazioni rispetto quelli che vanno all'estero oppure agiscono "in nero".
Le sanzioni. Non è più credibile un sistema in cui sanzioni "mostruose" (tre, quattro volte le imposte, la confisca di qualcosa che non si sa) tradiscono solo l'impossibilità di applicarle veramente. Le sanzioni vanno pensate in modo unitario e definitivo, senza aggiustamenti a seconda del fenomeno che si vuole disincentivare, e devono essere commisurate alla gravità della violazione.
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