Non è ancora l'alba quando una trentina di lavoratori stranieri, quasi tutti slavi, intirizziti dal freddo e in attesa, compaiono vicino ad uno "smorzo" – così vengono chiamati i depositi di materiale edile – all'incrocio tra via Vigna Murata e via Ardeatina, ai margini del residenziale quartiere dell'Eur, a Roma. «Se non ti caricano sul pulmino prima delle otto è quasi sicuro che non lavori, perché a quell'ora tutti i cantieri sono già avviati». La fermata dell'Atac, distante meno di dieci metri, mette a riposo le coscienze di quanti, ogni mattina, passano proprio accanto a quel gruppetto, fingendo di non sapere che nessuno di loro aspetta l'autobus. Tutti in nero e nessuno a libro paga, verranno caricati da un caporale su un pulmino e portati in uno dei cantieri edili della città o in un campo agricolo fuori Roma. «Noi – racconta uno di loro – veniamo qui ogni mattina e a volte capita anche di fare piccoli lavori nelle case degli italiani». Montare un'antenna, ridipingere casa. E la paga? «Dipende da cosa decide chi ci viene a prendere».
Storie di sfruttamento, una malattia insidiosa e perversa che non debilita solo il corpo. Ferisce lo spirito, il cuore, la mente. E che nella sua forma più acuta, anche se non molto diffusa, si chiama caporalato. Miete vittime dal nord al sud. Milano ne è affetta da tempo e l'edilizia è il soggetto più malato. «Sono pochi i cantieri dove tutto il personale è in regola – spiega Ferdinando Lioi, segretario sindacato edili di Milano della Uil –. Come si sfrutta la prostituzione, allo stesso modo si sfruttano le braccia». E di sfruttamento si tratta, «la paga, quando arriva, si aggira sui quattro/cinque euro all'ora, ma i caporali, dalle imprese, ne prendono dodici/tredici». Nella provincia di Milano un manager del lavoro nero può gestire circa due-trecento extracomunitari. L'incasso, che lascia poco spazio agli scrupoli, si aggira tra i 12 e i 13mila euro al giorno. Le spese riguardano i mezzi utilizzati per trasportare le braccia sul posto di lavoro e il carburante. «Il caporalato è un'impresa senza rischio d'impresa – aggiunge Lioi –, neanche il disturbo di qualche bega sindacale. I lavoratori migliori, infatti, sono gli irregolari, senza diritti, senza difesa». Il Naga, storica associazione di volontariato milanese, li assiste in campo sanitario e legale.
Josè (il nome è di fantasia) ha 26 anni, viene dal Salvador e ha una frattura alla mano. È in Italia da un anno e mezzo e fa il muratore. «Lavoro otto ore al giorno dal lunedì al venerdì – dice in un buon italiano –, il sabato mezza giornata. Però, sempre più spesso, faccio fatica ad essere pagato. A volte, dopo il lavoro, mi dicono che non possono pagarmi il prezzo concordato a causa della crisi. Altre volte che non possono pagarmi per nulla. E allora non vado più a lavorare». Persone inesistenti e senza voce, almeno nel campo dei diritti. Ma allora perché lasciare famiglia e paese d'origine? «A San Salvador – racconta sottovoce – se hai tra i quindici e i trent'anni sei in pericolo. O entri in una baby gang o muori. Hanno ucciso due miei amici e io, dopo aver ricevuto una minaccia, sono scappato. Ho pensato di avere diritto a una opportunità nella vita».
Difficile trovare traccia della speranza, però, sui volti delle persone in attesa di una visita medica o anche di un sostegno psicologico. «Gli extracomunitari che arrivano in Italia sono giovani e sani – sottolineano le volontarie del Naga –. Si ammalano qui: lo sfruttamento, le condizioni di vita, la lontananza dalla famiglia, logorano corpo e spirito». Non solo irregolari, però, nella morsa degli sfruttatori. Anzi. «L'area prevalente del caporalato è quella del grigio – spiega Marco Di Girolamo segretario generale Fillea Cgil Lombardia –, rappresenta l'80% del totale e coinvolge in ugual misura italiani e immigrati regolari. Cioè persone assunte regolarmente che in busta paga risultano occupate per 70-80 ore al mese, ma che in realtà ne lavorano 200-250». Il giro di denaro è tale che alimenta una vera e propria organizzazione. Anche tra i caporali, infatti, esiste una gerarchia. «C'è una struttura piramidale che gestisce il traffico. Si articola come illeciti "uffici di collocamento", che hanno spesso i bar come luoghi di reclutamento. I caporali di livello più basso stanno in cantiere per vigilare mentre altri, evidentemente più in alto nella scala gerarchica, gestiscono il traffico umano». Se nel 2000 erano soprattutto bergamaschi e bresciani, oggi, spiega Di Girolamo «sono spesso calabresi, a causa della forte penetrazione della ndrangheta, ma anche, nelle posizioni più basse, egiziani, tunisini, marocchini. Operano attraverso imprese ed entrano nei grandi cantieri grazie ai subappalti. Aziende con patrimoni ridicoli, dove il responsabile legale risulta essere un tossicodipendente».
«Nella capitale – racconta Francesco Carchedi, responsabile della Ricerca di Parsec – gli ambiti in cui opera il caporalato sono soprattutto quello dell'edilizia, con i cantieri, e dell'agricoltura con un bracciantato che da Roma viene portato fuori città. C'è poi tutto il settore delle cucine di alberghi e ristoranti dove i lavoratori irregolari vengono utilizzati con pochissimi controlli». «Di recente – aggiunge Vladimiro Perretta, direttore del dipartimento Prevenzione della Asl Roma G – abbiamo scoperto che alcuni lavoratori vengono reclutati anche nei settori dei trasporti e della logistica, soprattutto ad opera di privati, che in questo modo risparmiano sui costi di un eventuale incarico regolare».
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