Volendo, la storia di Bianca Guidetti Serra potrebbe essere raccontata a partire da tre cartoline, spedite al suo indirizzo di Torino nel corso del 1944: le uniche che Primo Levi sia mai riuscito a far uscire da Auschwitz. Tutte e tre dicevano soltanto: «Primo sta bene». Mesi prima, la stessa Bianca aveva ricevuto, da Bolzano, una quarta cartolina firmata da Levi insieme a due amiche ebree deportate con lui, Luciana Nissim e Vanda Maestro (che non sarebbe ritornata): «Cara Bianca, tutti in viaggio alla maniera classica - saluta tutti - a voi la fiaccola. Ciao Bianca, ti vogliamo bene». Sul retro, le scritte «Vinceremo» e «Impostare per favore».
Bianca Guidetti Serra era esattamente una coetanea di Primo Levi, entrambi erano nati nell'estate del 1919. E "Bianca la rossa" (come sarebbe stata soprannominata, non senza malizia, dopo la sua adesione al Partito comunista, dal quale uscirà nel '56) era l'unica non ebrea di un gruppo di amici della buona borghesia torinese: giovani più o meno promettenti, che avevano fatto appena in tempo a laurearsi prima che l'8 settembre 1943 travolgesse ogni cosa. Oltre a Levi, Nissim e Maestro, facevano parte del giro di Bianca - laureata in legge - colui che ne sarebbe divenuto il marito, il chimico Alberto Salmoni, e l'economista Franco Momigliano.
Politicamente, Bianca era la sola comunista in una cerchia di simpatizzanti del Partito d'azione. Ma gli uni e gli altri condividevano una forma di impazienza antifascista, o di vagheggiamento rivoluzionario, che minacciava fin da allora di scontrarsi con le dure repliche del presente. Così, la storia di Bianca potrebbe essere raccontata anche come una storia di armi che non sparano. A cominciare dalla carabina con cui sua nonna, contadina nell'Alessandrino di primo 900, faceva la guardia alla vigna nelle notti prima delle vendemmia: «Quella mitica carabina della nonna, tutta istoriata di madreperla, ci avrebbe poi accompagnato da una casa all'altra come un arredo familiare di riguardo, finché, dopo il '68, in quegli anni di perquisizioni generalizzate, finimmo per nasconderla sotto le tegole del solaio senza più ritrovarla».
Non si riesce a leggere questo passo delle memorie recentemente pubblicate da Bianca Guidetti Serra, con Santina Mobiglia (Bianca la rossa, Einaudi), senza ripensare alla pagina del Sistema periodico in cui Primo Levi ha elevato un'arma dello stesso genere a simbolo della sua breve, sfortunata, velleitaria esperienza di partigiano in valle d'Aosta, prima dell'arresto e della deportazione nel lager: «La rivoltella che tenevo sotto il guanciale, e che del resto non ero sicuro di saper usare,... era minuscola, tutta intarsiata di madreperla, di quelle che adoperano nei film le signore disperate per suicidarsi». Quei giovani della buona borghesia torinese potevano pure essere fiduciosi nel domani («Vinceremo», scrivono sul retro della cartolina i tre deportati verso Auschwitz), ma restava loro da imparare che le guerre non si vincono più con armi di madreperla.
Per quanti scamparono alla tragedia, diventare grandi volle dire, dopo il 1945, anche questo: non vagheggiare troppo di rivoluzioni prossime venture, dimenticare le armi e rimboccarsi le maniche. Fu la scelta molto concreta - molto piemontese - del "lavoro ben fatto" ciascuno nel suo campo, fosse il mondo della chimica, come per Levi in una fabbrica di vernici, o fosse il mondo della legge, come per Guidetti Serra. Perciò, la storia di Bianca va soprattutto raccontata come una storia di tribunali: quelli dove ha esercitato da avvocato penalista, in una lunga carriera iniziata nel 1947 e conclusa nel 2001. Ed è qui che la storia di una singola donna si incrocia significativamente con mezzo secolo di storia d'Italia.
A percorrerla sul filo delle sue memorie, la vicenda professionale di Guidetti Serra diventa una macchina del tempo che ci riporta dritti dritti in un'Italia lontana. Nell'Alessandrino del 1954, per esempio: dove l'avvocatessa difende una coppia di giovanissimi, fratello e sorella, cresciuti orfani in una cascina isolata, che hanno ucciso il figlio nato dal loro rapporto incestuoso. O ci riporta in tanti luoghi del Piemonte dove la conflittualità politica e sociale provocava, negli anni Cinquanta e Sessanta, l'una o l'altra manifestazione di dissenso (affissione di manifesti, distribuzione di volantini, "comizi volanti"), e le infrazioni venivano ancora contestate sulla base di una legge di pubblica sicurezza del 1931: con tutto uno strascico di arresti, processi, condanne. O ci riporta ai cancelli delle grandi fabbriche di Torino e dell'hinterland, dove i picchettaggi e i cortei interni nei giorni di sciopero si traducevano spesso in incriminazioni per violenza privata, quando non per sequestro di persona.
L'episodio più macroscopico di controllo sulla classe operaia, nella prospettiva di una repressione del dissenso, sarebbe emerso all'inizio degli anni 60, e sarebbe entrato nelle cronache giudiziarie come lo scandalo delle "schedature Fiat": un'immensa raccolta di informazioni riservate sui dipendenti, centinaia di migliaia di "schedature personali" che scendevano nel dettaglio delle abitudini morali o sessuali degli operai; informazioni messe insieme per decenni dai responsabili della sicurezza di corso Marconi, con la complicità dell'uno o dell'altro corpo della polizia di stato. Guidetti Serra fu tra gli avvocati che tutelarono i lavoratori schedati, ottenendo la costituzione come parte civile delle organizzazioni sindacali. E soltanto le lungaggini di una giustizia all'italiana permisero a cinque dirigenti Fiat (oltreché a un alto funzionario della Questura) di cavarsela con poco, grazie alla caduta in prescrizione dei reati.
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