ITALIA

 
 
 

 

C'è doping nel Pil di Germania e Francia?

di Marco Fortis

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19 maggio 2010

Sono ormai molti coloro che si sono convinti ex post che nell'ultimo decennio è stato di gran lunga preferibile avere un moderato aumento del Pil, come hanno fatto Italia e Germania, piuttosto che ostentare un'espansione economica apparentemente brillante al 4% annuo costruita sui debiti (pubblici o privati), "scassando" alla fine i conti patrimoniali aggregati nazionali, come hanno fatto Grecia, Irlanda e Spagna.

Meno facile risulta "convertire" i più irriducibili ammiratori del modello anglosassone (di cui pure noi stessi apprezziamo molte virtù) del fatto che anch'esso ha "deragliato". Infatti, è piuttosto indigesto dover ammettere che anche la superiore crescita di Stati Uniti e Gran Bretagna rispetto alle manifatturiere Italia e Germania sia dipesa negli ultimi 10-15 anni più dalla "droga" del debito che non dai servizi avanzati o dalle nuove tecnologie.

Eppure le statistiche della Federal Reserve indicano chiaramente che dal 2001 al 2007, prima che la crisi dei mutui subprime scoppiasse, negli Stati Uniti il debito aggregato di famiglie, imprese e pubblica amministrazione era aumentato di oltre 12mila miliardi di dollari correnti a fronte di una crescita del Pil di 3.700 miliardi, dunque con una leva non propriamente efficiente, pari a 3,4 dollari di debito per ogni dollaro di aumento del prodotto. Parallelamente, in Gran Bretagna, dalla metà degli anni 90 in poi, il debito delle sole famiglie è aumentato in valore assoluto più di quanto non sia avvenuto in Italia, Germania e Francia tutte assieme.

Pur considerando questi enormi squilibri, permane la diffusa convinzione di una "lentezza" di fondo dell'Italia non solo verso le economie "dopate" ma anche rispetto a paesi "virtuosi" a noi più simili come Germania e Francia perché, prima della crisi mondiale, in base alle statistiche ufficiali noi avevamo comunque accumulato qualche punto di crescita del Pil in meno anche nei confronti di tali paesi. Ma ne siamo davvero così certi?

I ritardi strutturali dell'Italia nei riguardi di Germania e Francia indubbiamente esistono e vanno recuperati: ad esempio in termini di efficienza della pubblica amministrazione o di costi dell'energia rispetto alla Francia, di ricerca o di formazione rispetto alla Germania eccetera. Ciò non si discute assolutamente. Ma, forse, è lecito invece nutrire qualche interrogativo sull'attendibilità delle statistiche dell'ultimo decennio relative al Pil dell'Italia e dei due nostri più grandi partner nell'Euroarea.

È noto che nel nostro paese da qualche tempo si dibatte sull'"esattezza" dei dati del Pil italiano. A parte la questione del "sommerso" (che è un problema di misurazione enorme), c'è chi ha avanzato l'ipotesi che un utilizzo di deflatori del Pil troppo "aggressivi" abbia trasformato la nostra recente crescita economica, tutt'altro che disprezzabile a valori correnti, in un'espansione in volume eccessivamente "sacrificata". Ciò riguarderebbe soprattutto il settore manifatturiero (come hanno messo in evidenza recenti analisi di Fulvio Coltorti del Centro studi di Mediobanca), ma anche altri comparti. E poiché la crescita del Pil si misura in volume ed è in volume che si fanno le comparazioni dinamiche con gli altri paesi, ecco che dall'eccessiva "autoflagellazione" che ci siamo imposti a livello di deflatori potrebbero originare non pochi problemi interpretativi e di ricostruzione storica, inclusa anche la fondatezza delle controverse ipotesi di "declino".

Per la verità l'Istat, sotto la presidenza di Enrico Giovannini, sta oggi lavorando molto per recuperare alcuni ritardi nella costruzione di indici dei prezzi alla produzione per le attività dei servizi e per i beni importati che potrebbero condurre a nuove chiavi di lettura della nostra crescita recente. Inoltre anche l'impiego di nuovi deflatori basati sui prezzi all'esportazione, anziché sui valori medi unitari del commercio con l'estero come avviene tuttora, potrebbe determinare qualche futura revisione statistica. È da tenere conto, peraltro, che così come eventuali "errori" nei valori medi unitari possono compensarsi, lo stesso potrebbe accadere anche con i prezzi all'export e all'import. Forse, perciò, alla fine non ne risulterà rivoluzionata la dinamica dei dati aggregati del Pil ma le novità potrebbero essere rilevanti a livello settoriale, ad esempio nel manifatturiero la cui crescita in volume negli ultimi è stata con ogni probabilità più forte rispetto a quanto sinora certificato dalle statistiche ufficiali.

Senza contare che rimane aperta la questione se, in questa fase storica di enorme cambiamento della nostra industria manifatturiera, i dati in volume siano efficacemente rappresentativi della realtà. Infatti, l'industria italiana negli ultimi anni ha mutato radicalmente pelle generando meno volumi e meno produzioni tradizionali e più valore aggiunto e più produzioni innovative. Non era forse questo che tanti economisti invocavano e auspicavano che facessero i nostri imprenditori, nel delicato passaggio tra la fine dell'era delle svalutazioni competitive e l'avvento della concorrenza cinese, con cui l'Italia ha dovuto fare i conti prima di tutti gli altri paesi avanzati? Perché, allora, continuare a misurare in volume il comportamento delle nostre imprese negli ultimi dieci anni ricavandone un'idea di declino mentre invece vi è stata grande capacità di reazione e un progresso in termini di innovazione, di aumento della produttività e della competitività in valore?

  CONTINUA ...»

19 maggio 2010
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