I dati sul rimbalzo dell'economia italiana nel terzo trimestre non bastano a evitare, anche nello scenario relativamente ottimista dell'ultimo Dpef, la poco consolante prospettiva di recuperare il livello del Pil del 2007 non prima della metà del prossimo decennio. Nell'ultimo rapporto l'Ocse stima, sia pure con le cautele dovute in questi calcoli, che la violenta crisi del 2008-09 comporterà un abbassamento di quasi tre punti nel livello di Pil potenziale dell'area euro (Italia inclusa) in un orizzonte di 4-5 anni. Infatti la crescita della produttività rischia di essere frenata da una perversa miscela di domanda debole, restrizione creditizia a nuovi investimenti privati, vincoli di bilancio alla spesa pubblica per infrastrutture e istruzione, aumento della disoccupazione di lunga durata e conseguente deterioramento del capitale umano.
Soprattutto non si deve nascondere la profonda crisi dell'apparato industriale: calo di quasi il 10% degli occupati nell'industria manifatturiera previsto sul triennio 2008-10, incrementi vertiginosi della cassa integrazione, tasso di disoccupazione che viaggia verso il 9%, rapido aumento delle sofferenze che frenano la crescita del credito bancario, dilatarsi delle fasce di povertà e dell'economia sommersa, l'industria manifatturiera statisticamente pesa meno del 20% sul Pil (contro il 70% del settore terziario) ma è un motore assolutamente indispensabile per alimentare lo sviluppo della ricchezza, dell'occupazione e della competitività del paese. L'industria manifatturiera esercita un potente traino di domanda per lo stesso settore terziario, dai trasporti ai servizi professionali, alla finanza. E costituisce la principale attività capace di generare le esportazioni con cui riusciamo a finanziare le nostre importazioni di materie prime, manufatti e servizi.
In questo contesto vanno seriamente ripensati gli obiettivi e gli strumenti della politica industriale e dello sviluppo, tenendo conto della peculiare struttura dell'offerta che caratterizza l'Italia rispetto ai maggiori paesi avanzati: un numero esiguo e calante di grandi gruppi industriali, un "ceto medio" in tendenziale espansione e un esercito frammentato di piccole e microimprese con forti segnali di sofferenza al suo interno.
Occorre muoversi in tre direzioni: favorire la crescita interna e internazionale dei (pochissimi) grandi gruppi ancora in grado di competere su scala globale; far dimagrire rapidamente i medi e grandi gruppi ormai decotti (quanta petrolchimica obsoleta ereditata dagli anni 70 è ancora sussidiata senza speranza in aree che vanno da Marghera a Siracusa?); incentivare la crescita dimensionale della piccola e media industria dinamica e innovativa. L'obiettivo ultimo è fare meglio ciò che già sappiamo fare (i vantaggi competitivi ereditati dal passato), ma contemporaneamente sviluppare nuove nicchie di specializzazione in aree a forte dinamismo tecnologico dove non sappiamo ancora fare ma abbiamo buone carte per entrare nel gioco. Ciò richiede modifiche del quadro normativo e iniziative concrete in almeno quattro aree, di cui le prime due sono pre-condizioni per una politica industriale moderna.
Primo, l'ormai dannosa e iniqua eredità della Cassa integrazione guadagni (che ingessa la mobilità della manodopera e non ne protegge le fasce deboli) va gradualmente sostituita da una nuova disciplina su licenziamenti, ricollocazione sul mercato del lavoro e ammortizzatori sociali (flexsecurity, welfare to work)), raccogliendo le migliori tra le varie proposte di riforma del sistema previdenziale, nonché le linee di modifica degli articoli 2118-2120 del Codice civile già avanzate dal senatore Pietro Ichino.
Secondo, va proseguito e avviato a concreta applicazione il nutrito programma intrapreso dal ministro Roberto Calderoli di semplificazione delle procedure amministrative, che da sempre sono una tremenda palla al piede delle imprese (particolarmente se di piccole e medie dimensioni), col pessimo risultato di penalizzare la produttività e scoraggiare gli investimenti italiani, nonché quelli esteri che cerchiamo di attirare o almeno di trattenere in Italia perché non vadano altrove. La lista delle cose da fare è purtroppo lunga e nota: autorizzazioni con certezza e ragionevole rapidità dei tempi di risposta, sportelli unici funzionanti non solo sulla carta, conferenze di servizi non tenute in ostaggio da singole componenti irresponsabili, rapporti meno vessatori della pubblica amministrazione su fiscalità e controlli delle aziende adempienti mentre dilaga l'economia illegale e sommersa, e così via.
Terzo, per «fare meglio ciò che sappiamo già fare» servono incentivi fiscali e finanziari alla crescita dimensionale attraverso la ricapitalizzazione delle imprese, inclusi quelli per aggregare entità minori entro reti di imprese e organizzazioni collettive (di tipo distrettuale o meno). Il piccolo è bello solo se un buon numero di piccoli riescono a crescere da soli (con capitale fresco, utili reinvestiti e debito) o ad aggregarsi per diventare rapidamente medi e grandi. Così si può reggere la competizione con paesi (avanzati ed emergenti) agguerriti ed evoluti, capaci di inseguire e imitare a costi inferiori e maggior potenza di vendita una parte rilevante della nostra stessa tradizione industriale, soprattutto nei beni di consumo per la persona e la casa, ma anche in quote crescenti di meccanica e metallurgia. Ben venga il potenziamento del Fondo centrale di garanzia, così come i Fondi di sviluppo e garanzia (Confidi) alimentati da banche e associazioni industriali col supporto delle regioni e della Cassa depositi e prestiti, di cui si è parlato molto in questi mesi. Come si desume dalle stesse analisi del ministero dello Sviluppo economico (settembre 2008) e da studi econometrici della Banca d'Italia, la batteria di più di 20 leggi e decreti di incentivazione industriale che richiedono processi valutativo-discrezionali riesce a stimolare qualche investimento aggiuntivo in meno della metà dei casi aziendali coinvolti.
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