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Metti una passeggiata con il Pil

di Orazio Carabini

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19 settembre 2009


Felicità non è sinonimo di benessere. Da un punto di vista lessicale è scontato. «E invece si è fatta molta confusione tra i due termini».
Enrico Giovannini, da poche settimane presidente dell'Istat ed-ex chief statistician dell'Ocse, fa parte della commissione guidata dagli economisti Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi, che il presidente francese Nicholas Sarkozy ha incaricato di studiare le modalità con cui si misurano la performance economica e il progresso sociale degli stati. Ovvero di descrivere i limiti del Pil e d'individuare indicatori più adatti a definire le reali condizioni di un paese.
«Per la commissione - osserva Giovannini - è fondamentale che il focus si sposti dalla produzione, come accade oggi, al benessere. Ma non riteniamo che un indicatore unico della felicità possa rispecchiare il benessere. Non basta chiedere alla gente se è felice». Insomma, non si può semplificare troppo perché la questione non è affatto banale. E le leggende che circondano le rilevazioni sulla felicità dei cittadini nel regno del Bhutan vanno trattate con le pinze».
Nè basta modificare le tecniche di rilevazione del Pil: se tutto si limitasse a questo problema, basterebbe che un gruppo di statistici si riunisse a congresso e definisse delle regole valide a livello internazionale. Ma il passaggio "epocale" affrontato dalla commissione Stiglitz è più complesso, con implicazioni filosofiche, psicologiche e sociologiche, oltre che economiche e statistiche.
Il focus sul "benessere" riflette la necessità di abbinare rilevazioni sulla condizione soggettiva oltre che oggettiva della popolazione. E di misurare in qualche modo la qualità della vita, non solo il reddito prodotto. Ma in concreto, se si volesse tener conto immediatamente di queste indicazioni, da dove bisognerebbe cominciare? «C'è lavoro per tutti: gli uffici nazionali di statistica, i media, la politica e le parti sociali», spiega Giovannini.
Gli uffici di statistica dispongono già ora di un'impressionante mole di dati sui settori che la commissione suggerisce di valorizzare: salute, educazione, attività personali (incluso il lavoro), libertà d'espressione politica e partecipazione alla vita pubblica, relazioni sociali, ambiente, sicurezza.
«Con una pubblicazione compatta, centrata su indicatori di benessere oggettivo e soggettivo, gli uffici di statistica farebbero un grande passo avanti, rendendo meno oscuri dati che oggi sono riservati all'uso degli specialisti», osserva Giovannini.
Ma anche l'utilizzo degli indicatori macroeconomici dovrebbe cambiare, spostando l'angolo visuale dal Pil al reddito disponibile delle famiglie, aggiustato per i servizi pubblici che ricevono: sanità, istruzione, case popolari, attrezzature sportive, attività ricreative e culturali (dai parchi pubblici ai musei), se sono forniti gratis o a basso prezzo, incidono parecchio sulle condizioni di vita di una famiglia.
«È un dato che già esiste - commenta il presidente dell'Istat - ed è importante perché in qualche misura cambia le gerarchie». Negli Stati Uniti, per esempio, si pagano meno imposte e si ricevono meno servizi pubblici. In Francia è vero il contrario. Il confronto sulla base del Pil favorisce gli Usa, ma se si guarda al reddito disponibile corretto le distanze si accorciano.
Quanto ai media, l'attenzione che dedicano agli indicatori diversi da quelli economici è molto inferiore, secondo Giovannini: «Va bene l'attenzione alla Borsa, al prezzo del petrolio e ai tassi di cambio, ma la scuola e la sanità non sono meno importanti».
Infine è necessario un passaggio istituzionale: la definizione di una serie di indicatori che permetta di capire come va un paese. «È fondamentale che la scelta, non dei metodi ma degli indicatori più rilevanti, sia condivisa - sottolinea il presidente dell'Istat - dai partiti politici e dalle parti sociali, oltre che dagli esperti». Il Cnel, come ha proposto in un recente convegno il suo presidente Antonio Marzano, potrebbe essere l'incubatore di questo passaggio in Italia.
Ma quanto si presta tutto questo sommovimento statistico al rischio di "manipolazioni" politiche? La stampa anglosassone ha sostenuto che, dietro l'istituzione della commissione Stiglitz, si nasconde la volontà di Sarkozy di chiudere il divario che separa la Francia dagli Stati Uniti.
Del resto Olivier Blanchard, capoeconomista del Fondo monetario internazionale, ha documentato che, fatto 100 il Pil pro capite americano, quello francese è intorno a 70. Se si guarda al Pil per ora lavorata, invece, i valori sono quasi uguali. Eliminato l'effetto delle ferie e dell'orario di lavoro, dunque, la produttività è pressoché identica. Il gap di produttività su cui tanto si è detto e si è scritto nascerebbe esclusivamente dal fatto che i francesi riescono a concretizzare la loro preferenza per il tempo libero.
«E allora - si chiede Giovannini - dobbiamo far finta che questi dati non contino nulla? Dobbiamo continuare a pensare che tutto deve essere misurato in termini monetari? Oppure il benessere dipende anche da altri fattori?». Se ci si focalizza sul benessere, si arriva alla conclusione che il Pil pro capite non dice tutto sullo sviluppo. E anche le classifiche cambiano.
  CONTINUA ...»

19 settembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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