Il modo più semplice per fare soldi nel mondo finanziario è quello di far apparire come meno rischiosi dei titoli. Riuscì a Michael Milken che, sulla base di statistiche sbagliate, convinse gli investitori che i junk bond erano molto meno rischiosi di quel che si pensasse. Riuscì alle investment bank che trasformarono i mutui subprime in titoli con rating tripla A. Riuscì anche al "governo europeo" che trasformò il debito di paesi come la Grecia e l'Italia in titoli affidabili, riducendone il premio per il rischio.
Perché l'operazione riesca ci deve essere una storia convincente. Per i junk bond, le serie storiche con pochi fallimenti. Per i subprime cartolarizzati l'idea che la diversificazione tra aree geografiche (anche se pur sempre americane) possa ridurre il rischio. Nel caso dell'euro, la speranza che la partecipazione a un'unione monetaria migliori le istituzioni dei paesi membri meno affidabili.
Affinché possa riuscire su larga scala, l'operazione deve avere effetti reali positivi. Avendo convinto gli investitori istituzionali che i junk bond erano titoli meno rischiosi, Michael Milken creò un mercato liquido che rese questi titoli più appetibili, aumentando le possibilità di finanziamento delle imprese a rischio e quindi riducendone la probabilità di fallimento. Lo stesso capitò coi titoli subprime che, rendendo facile ai clienti subprime rifinanziarsi, per i primi anni ridussero a livelli minimi i fallimenti dei creditori ad alto rischio. E lo stesso successe con l'euro. Entrando nell'euro, Grecia e Italia ottennero una fortissima riduzione dei tassi di interesse pagati, migliorando molto i loro deficit di bilancio pubblico e quindi apparendo come debitori più affidabili.
Ma se questo feedback positivo non è sufficiente, il circolo virtuoso non dura per sempre. Prima o poi la cruda realtà prevale sull'illusione. Nel 1989 un professore del Mit dimostrò che i numeri usati da Michael Milken per promuovere i junk bond erano troppo ottimisti e il mercato crollò. Nel 2007 invece furono i crescenti fallimenti dei clienti subprime a esporre l'errore. Oggi sono le manipolazioni contabili della Grecia a mettere in crisi l'illusione che l'appartenenza all'euro trasformi, come per incanto, dei paesi prodighi in esemplari teutonici di oculatezza di bilancio.
Quando l'incantesimo si rompe sono in molti a illudersi che basti una piccola magia per ritornare indietro: basta riattivare il feedback positivo e l'illusione diventa realtà. Se solo Drexel non fosse stata lasciata fallire, se solo il governo americano avesse sostenuto temporaneamente i titoli tossici, se solo il governo tedesco intervenisse a prestare i venti miliardi di euro che servono alla Grecia ad aprile, il mondo potrebbe tornare indietro. Si tratta di un'illusione. Il salvataggio di Bear Stearns non evitò il disastro, lo pospose. E dopo i venti miliardi di aprile ce ne saranno altri trenta e poi ancora. La verità è che l'incantesimo dell'euro si è infranto e le sue ambiguità iniziali ora emergono in tutta la loro crudezza: l'euro è un'unità politica o un semplice currency board, un meccanismo per i paesi a valuta debole di acquisire stabilità dall'esterno, come fece l'Argentina con il dollaro?
Al momento l'euro sta in mezzo. L'integrazione economica ed ancor più l'integrazione del sistema dei pagamenti rende l'uscita dall'euro molto più difficile dell'uscita da un currency board. In questo senso è più stabile e credibile. Ma la mancata integrazione politica rende l'uscita dall'euro molto più probabile dell'uscita della California dal dollaro. Questa ambiguità non può continuare.
Gli europeisti a oltranza non hanno dubbi: l'unica soluzione possibile è accelerare l'integrazione, e nel frattempo la Grecia va aiutata. Si dimenticano, però, di un aspetto importante: non esiste un consenso per tale iniziativa. Non solo i tedeschi, ma anche i francesi e probabilmente gli stessi greci non sono pronti a rinunciare alla loro sovranità nazionale a favore di una completa unità politica. A maggior ragione, non sono disponibili a forti redistribuzioni di ricchezza, più di quelle già esistenti.
Il processo di unificazione fu guidato da una generazione che aveva visto gli orrori della guerra e che era pronta a qualsiasi sacrificio per evitare un suo ripetersi. Ora quella generazione non siede più nelle stanze del potere e con essa è svanito il forte consenso politico. In questa situazione, per quanto l'idea sia nobile, forzarne l'applicazione da parte di un'élite illuminata è non solo antidemocratico, ma anche pericoloso.
L'alternativa, però, non è la fine dell'euro, come si aspettano (e si augurano) molti negli Stati Uniti. È la trasformazione dell'euro. Un'unione monetaria non è necessariamente un'associazione di mutuo soccorso. Negli Stati Uniti i singoli stati (e le singole città) possono fallire (e sono fallite in passato) senza per questo mettere in dubbio la stabilità dell'unione. Per questo i singoli stati sono liberi di gestire le loro politiche di bilancio senza interferenze da parte del governo federale: perché sanno di non poter contare sui suoi aiuti. Quando nel 1975 la città di New York fu sul limite della bancarotta e tentò di chiedere soldi al governo federale, il presidente Ford le rispose di arrangiarsi. E si arrangiò. Perché non possiamo fare altrettanto con la Grecia?
L'unica differenza è che la Grecia può più facilmente uscire dall'euro che la città di New York dal dollaro. Ma il valore di tale opzione può essere facilmente ridotto introducendo una norma che automaticamente escluda dall'Unione Europea quei paesi che decidano di uscire dall'euro. Non coloro che scelgono di non entrare (come la Gran Bretagna o la Svezia) ma coloro che entrano e poi decidono di uscirne. Sommandosi ai costi associati alla confusione nel sistema di pagamenti che un'uscita dall'euro comporterebbe, questa norma eliminerebbe de facto (anche se non de jure) il rischio di uscita non solo per la Grecia, ma anche per la Spagna, l'Italia, e l'Irlanda. Questo ridurrebbe enormemente gli effetti di un possibile default della Grecia.
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