Ho appena letto il bel libro di Pier Francesco Assi e Sebastiano Nerozzi, Storia dell'Abi - 1972-1991 e la prima constatazione che il libro suggerisce è che il nostro sistema bancario è da allora davvero cambiato. Io lo definii in quegli anni una foresta pietrificata e la mia definizione fu forse eccessiva. Ma chi legga queste pagine, scritte con grande scrupolo scientifico sulla base dei documenti dell'Associazione bancaria oltre che dei verbali del suo Consiglio e del Comitato esecutivo, non può non convenire con la mia constatazione. Nel periodo trattato dal libro, nell'Associazione e tra le banche prevalevano la chiusura all'esterno, la diffidenza nei confronti della concorrenza che la Comunità europea stava portando e la preoccupazione per quel mutuo riconoscimento (uno dei principali grimaldelli usati dalla stessa Comunità per aprire il mercato unico) grazie al quale sarebbero venute da noi banche straniere più forti e meno gravate da vincoli operativi.
La direttiva europea n. 780 del 1977, quella che imponeva di trattare la raccolta del risparmio e l'erogazione del credito alla stregua di qualunque attività d'impresa privata, venne accolta bene dalle nostre banche. Il fatto si è che esse la sostennero per una ragione prevalente e cioè perché una tale impostazione faceva cadere l'aggravato trattamento penale cui erano soggetti i banchieri italiani, i quali, ancora irretiti entro un autentico ordinamento amministrativo di settore (come lo definì Massimo Severo Giannini), venivano considerati alla stregua di pubblici ufficiali o, nel migliore dei casi, d'incaricati di pubblici servizi. Liberarsi di tali ingombranti qualifiche a fini penali era un'ottima ragione per sostenere l'innovazione europea.
Ma quando la Commissione di Bruxelles, sulla base della medesima impostazione, cominciò a mettere il naso negli accordi interbancari, leggendoli alla luce dell'articolo (allora) 85 del Trattato - quello che proibisce le intese restrittive della concorrenza a cominciare da quelle di fissazione del prezzo - la reazione difensiva tornò prontamente ad abbracciare gli argomenti che si erano appena ripudiati. E si sostenne che gli accordi interbancari in materia di tassi e condizioni «toccano la determinazione di un prezzo che, diversamente da quanto avviene con riguardo agli altri settori, assume qui rilevanza strategica ai fini dell'attuazione delle politiche monetarie nazionali», delle quali quel prezzo è una vera e propria "proiezione" (così un documento del servizio studi del 22 settembre 1982, citato nel libro). Si tornava così a collocarsi non più nell'ambito privato, ma in quello del pubblico servizio, se non di più.
Quanto al mutuo riconoscimento - ci dicono i nostri autori - esso fu accolto «dal più vivo sconcerto dei banchieri», preoccupati che banche straniere con minori vincoli operativi, con requisiti più bassi di riserva obbligatoria e con tassazione meno elevata, potessero instaurare da noi condizioni di concorrenza impossibili da seguire. E fu tutto in fiorire di argomenti volti a distinguere servizio da servizio e a sostenere la tesi che il mutuo riconoscimento avrebbe dovuto essere selettivo e graduale.
Insomma, erano i nostri banchieri dei conservatori incalliti, come tali disadatti ad affrontare il cambiamento? Un generalizzato giudizio in questi termini sarebbe ingeneroso e non terrebbe conto della perdurante esistenza di un quadro amministrativo, all'interno del quale non era facile non solo comportarsi da imprenditori, ma anche maturare i corrispondenti paradigmi culturali. In quella realtà è il dibattito stesso all'interno dell'Associazione a testimoniare della maturazione che era comunque in corso, promossa e assecondata dall'intelligente lavoro della Banca d'Italia, allora guidata da Carlo Azeglio Ciampi.
Va ricordato infatti che, mentre cominciavano ad arrivare gli impulsi innovativi della Comunità europea, i binari delle necessarie trasformazioni interne venivano preparati dalla Banca centrale attraverso la sottoposizione al Comitato interministeriale del credito e risparmio, Cicr, di una serie nutrita di delibere che via via modificavano e liberalizzavano le modalità operative delle nostre banche. E in una fruttuosa interazione fra i primi (e rari) interventi legislativi e tali delibere, esse si trovarono abilitate a cedersi liberamente sportelli e ad aprirne di nuovi, mentre venivano alleggeriti diversi vincoli operativi e ci si apriva alla libera circolazione dei capitali all'interno della Comunità, giunta nel 1988.
Si capisce perciò come sugli stessi temi sui quali si erano registrate iniziali posizioni di chiusura, siano poi intervenute aperture e più flessibili prese d'atto del percorso su cui ormai ci si stava incamminando. Degli accordi interbancari si prese rapidamente a parlare non come se fossero atti quasi-pubblici sottratti all'antitrust, ma come d'intese che a volte celano accordi restrittivi della concorrenza, altre volte definiscono standard comuni che sono necessari al più efficiente servizio degli utenti. E nella messa a fuoco di tale distinzione prende corpo la normale dialettica fra autorità antitrust e imprese del settore.
Anche il mutuo riconoscimento finì per essere accettato e il lavoro dell'Associazione e delle banche fu poi di promozione di condizioni competitive che consentissero alle stesse banche di reggere l'urto dei concorrenti stranieri a cui si apriva il mercato italiano. Non mancarono le occasioni - e il libro le ricorda - nelle quali il governatore Ciampi ritenne utile manifestare la sua impazienza e l'urgenza quindi di procedere.
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