«Chi sa qualcosa si faccia avanti». Massimiliano, davanti alla bara del padre Enzo Fragalà, avvocato penalista massacrato a bastonate all'uscita dal suo studio, fa appello alla solidarietà. La parola contro il silenzio e l'indifferenza.
Ieri, giorno dei funerali in cattedrale, il presidente del Senato Renato Schifani ha parlato di «Palermo ferita». Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha insistito sulla «dedizione alla legge» di Fragalà. Il capo della polizia Antonio Manganelli ha promesso: «Faremo di tutto per accertare la verità e i responsabili».
È presto per dire se l'omicidio sia da ricondurre ad ambienti mafiosi. Di certo, la morte di Fragalà ha raccolto nella commozione avvocati e magistrati, come da tempo non accadeva. «C'è la consapevolezza - racconta Enrico Sanseverino, presidente dell'Ordine degli avvocati di Palermo - che l'omicidio sia un attentato alla legalità e alla libertà, che si sostanzia anche nel diritto alla difesa. Speriamo che magistrati e avvocati guardino gli uni agli altri come interlocutori, senza contrapposizioni. Abbiamo bisogno di affermare la fiducia nelle istituzioni, nella magistratura così come nell'avvocatura».
Che si possa morire di professione è difficile metterlo in preventivo, quando si supera l'esame di stato e si muovono i primi passi in uno studio. E che si possa parlare di difficoltà nell'esercitare la professione in ambienti caratterizzati da una criminalità pervasiva lo nega, con orgoglio, Roberto Tricoli, presidente della Camera penale di Palermo. «Non ho mai subito pressioni né condizionamenti; gli avvocati – dice – svolgono il loro lavoro con pazienza e sapienza giuridica. La manifestazione dietro palazzo di Giustizia, cui hanno partecipato moltissimi giovani, sta a significare la tranquillità dell'avvocatura. La nostra toga è stata un po' strappata ma non divelta dalle spalle».
E ppure, fuori da Palermo, dove in questi giorni è necessario mettere l'accento sul coraggio piuttosto che sulle inquietudini, la preoccupazione non è una voce isolata. Interessa avvocati, commercialisti, notai, medici, in generale le professioni che si trovano a gestire situazioni in cui può esplodere la violenza della criminalità come del disperato sfrattato da casa o travolto da un fallimento.
Nel mezzo di una procedura concorsuale sono stati uccisi Liberato Passarelli (lo scorso anno) e Costanzio Iorio (nel 2008), commercialisti a Cosenza e a Foggia.
Si può morire anche per inseguire la libertà d'informazione, contro la verità imposta dai clan camorristici, come è toccato a Giancarlo Siani nel 1985.
Oppure, si può essere intimiditi mentre si fa il proprio lavoro in una corsia d'ospedale o si corre da un letto a un altro in un pronto soccorso. Può essere la rabbia ad armare la mano di un boss per la morte della figlia, che il medico – come Nicolò Pandolfo, di Reggio Calabria – non è riuscito a salvare dal cancro. Ma l'ira può guidare anche uomini con la fedina penale pulita. «Lo sanno bene – dice Amedeo Bianco, presidente della FnomCeo, la federazione degli Ordini dei medici – gli operatori del pronto soccorso o le guardie mediche. Le violenze e le aggressioni, purtroppo, sono molto numerose».
«I professionisti - riflette Nico D'Ascola, avvocato penalista e professore all'università di Reggio Calabria - subiscono le trasformazioni imposte dallo stato, che li obbliga a compiti investigativi prima di competenza dall'amministrazione. Mi riferisco, per esempio, all'antiriciclaggio: il professionista è chiamato a segnalare il proprio cliente, nel caso lo ritenga autore di un'operazione sospetta».
Lo stato sta cambiando il rapporto di fiducia tra professionista e cliente e chiede al primo di fare la spia a svantaggio del secondo. In questo modo si mina l'affidamento e s'insinua il sospetto.
Può bastare questo fattore a spiegare come i professionisti si ritrovino a essere in difficoltà? «Il problema – afferma Giorgio Sganga, segretario del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti – è che lo stato ci affida compiti di natura pubblicistica e poi non ci garantisce tutela. Nelle procedure concorsuali, talvolta, è lo stesso giudice che ci nomina a metterci in difficoltà. Ci sono vuoti normativi. Certi magistrati si esercitano in formalismi pericolosi, che mettono a rischio non solo la soluzione positiva della procedura, ma anche la nostra incolumità. E poi capita di essere coinvolti nelle lotte tra procure, e il professionista, custode giudiziario, deve pagarsi l'avvocato per difendersi rispetto a un comportamento concordato con un magistrato».
Al Sud, certo, tutto è complicato dalla situazione economica. «Per molti – ammette Sganga – lavorare con il tribunale è l'unica possibilità di guadagnare. In Calabria, per esempio, non si può contare su un tessuto imprenditoriale. E così si è fortunati se si ottengono incarichi dal giudice. Magari si lavora per due o tre anni anticipando le spese e si viene pagati quando si realizza l'attivo. Ma questo è il punto: prima o poi si viene pagati».
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