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IDEE / C'era una volta il Fondo liberista

di Alessandro Merli

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20 febbraio 2010

Il Fondo monetario abbatte un altro tabù. Da sempre sostenitore della liberalizzazione dei movimenti di capitale, l'Fmi, in un paper diffuso ieri, riconosce che i controlli sui capitali sono «una parte legittima della cassetta degli attrezzi» delle autorità.
La revisione, seppure parziale, di una delle raccomandazioni classiche dell'istituzione di Washington ai paesi emergenti, di aprire i mercati finanziari e liberalizzare i movimenti di capitale, non è la prima rettifica che il Fondo fa del suo "vangelo", dopo il ripensamento provocato dalla crisi degli ultimi tre anni e che è culminato la settimana scorsa in un paper scritto dal suo capo della ricerca, Olivier Blanchard, insieme a due economisti italiani dell'Fmi, Giovanni Dell'Ariccia e Paolo Mauro, intitolato Rethinking Macroeconomic Policy. «La crisi - ha detto Blanchard - ci ha insegnato molte cose e vogliamo trarre in modo attivo delle lezioni dalla Grande Recessione».

La libertà dei movimenti di capitale è uno dei capisaldi del liberismo, tanto che fu una delle prime riforme introdotte dal governo di Margaret Thatcher appena insediato in Gran Bretagna nel 1979 e considerata una delle più importanti da lei stessa e dai suoi consiglieri economici. Nel consesso dei paesi avanzati, l'abolizione dei controlli sui capitali (che in Italia arrivò otto anni dopo, artefice Mario Sarcinelli) è considerato un requisito minimo per stare al tavolo dei grandi.
Nei paesi emergenti, però, la questione è assai più controversa. Persino uno strenuo difensore della liberalizzazione dei commerci, come Jagdish Bhagwati, economista alla Columbia University, sostiene che quella dei capitali vada affrontata con maggior prudenza e ha indicato in un'apertura affrettata su questo fronte una delle cause delle crisi finanziarie degli anni 90.
In particolare, la crisi delle Tigri del Sud-Est asiatico fu attribuita in parte a una liberalizzazione prematura dei movimenti di capitale. E, dai critici dell'Fmi, in parte all'inflessibilità dell'istituzione di Washington nell'imporre una ricetta di austerità assai rigida a tutti i suoi "pazienti". Un aspetto, quest'ultimo, che è ora oggetto della profonda revisione in corso negli ultimi anni. Senz'altro fu quella crisi che contribuì in modo decisivo al deterioramento dell'immagine e della credibilità del Fondo, che ricevette poi il colpo di grazia dalla maldestra gestione della crisi argentina. Tanto da farlo scivolare per diversi anni ai margini delle deliberazioni della diplomazia economica internazionale, ritrovando un ruolo centrale solo con la crisi globale scoppiata nel 2007, anche grazie alla dimostrazione di capacità di adattarsi alla nuova situazione sotto la guida di Dominique Strauss-Kahn, appoggiato dal peso intellettuale delle elaborazioni di Blanchard.

Per quanto riguarda i movimenti di capitale, diversi paesi emergenti si sono trovati di fronte, negli ultimi tempi, a massicci afflussi d'investimenti. Anche se si è ancora lontani dal record pre-crisi del 2007, quando i mercati emergenti ricevettero capitali privati per quasi 1.300 miliardi di dollari, quest'anno si prevede un aumento del 66% a 722 miliardi di dollari, rispetto al 2009, secondo le stime delle grandi banche private riunite nell'Institute of International Finance. Tali afflussi di capitale, concentrati in un gruppo ristretto di paesi, presentano per i destinatari il rischio di provocare un'eccessiva rivalutazione del cambio e quindi la perdita di competitività di vasti settori dell'economia (come teme il Brasile, che nei mesi scorsi ha introdotto una tassa sui capitali in entrata) oppure la creazione di bolle (come si paventa possa avvenire in Cina). È a fronte di queste situazioni che i controlli possono giocare, dice ora l'Fmi, una parte rilevante.

I paesi che in passato hanno applicato i controlli, come il Cile, ammettono che nel lungo periodo possono essere erosi dalla capacità del mercato di aggirarli. L'Fmi suggerisce una riconsiderazione periodica delle misure. Altri trovano difficile distinguere fra i capitali speculativi e quelli destinati a restare nel paese a lungo termine. Il Fondo monetario, anche nella sua nuova versione, non nega che possano avere effetti deleteri sull'efficiente allocazione dei capitali fra diversi paesi. Ne riconosce però, per la prima volta, la legittimità, dopo che già negli scorsi anni aveva avviato un dibattito sui benefici della liberalizzazione finanziaria. Piuttosto, pur prestando attenzione a non menzionare la Cina, che dei controlli sui capitali fa un ampio uso, il paper pubblicato ieri sottolinea il pericolo che «questi possano contribuire a un allargamento degli squilibri globali, specialmente se le restrizioni sono applicate da paesi che hanno una valuta sottovalutata come modo per resistere al suo apprezzamento».

La revisione del credo sulla libertà di movimenti di capitale è solo la terza tappa di una lunga marcia verso il cambiamento della filosofia che ha ispirato a lungo il Fondo monetario, e neppure la più clamorosa. Fece molto più scalpore, due anni fa a Davos, la proclamazione di Strauss-Kahn che i bilanci pubblici andavano impegnati in prima linea nella lotta alla recessione, se l'economia mondiale voleva evitare di precipitare in una nuova Grande Depressione. Il capo dell'Fmi suggerì che venisse mobilitato con fondi pubblici almeno il 2% del Pil per programmi di stimolo che arrestassero la caduta. Una proposta che è stata poi adottata dal G-20 e che ha grandemente contribuito a ridurre gli effetti della crisi, ma che inizialmente aveva suscitato sorpresa, venendo dall'istituzione custode del rigore fiscale (scherzava l'ex segretario al Tesoro Usa, Larry Summers, che Imf, la sigla inglese del Fondo, sta per «it's mostly fiscal», cioè si occupa soprattutto di conti pubblici).

  CONTINUA ...»

20 febbraio 2010
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