La caratteristica principale che distingue il sistema fiscale italiano da quello degli altri paesi OCSE è l'elevatissimo livello dell'evasione fiscale, che in base alle stime disponibili risulta circa il doppio della media dei principali paesi. Si tratta di oltre 200 miliardi di euro di base imponibile e di 100 miliardi di gettito in meno. Gli studi e le ricerche in proposito abbondano, si conoscono la tipologia dei contribuenti a rischio, i settori di attività, la distribuzione per regione e provincia...In un paese normale tutti gli sforzi si concentrerebbero sull'individuazione di strategie ottimali per riportare il fenomeno entro confini accettabili, e su questo vi sarebbe un impegno, come si dice, bipartisan. Un obiettivo realistico da porsi sarebbe quello di dimezzare l'evasione attuale, e di utilizzare il maggior gettito per ridurre l'incidenza delle imposte esistenti, in particolare quella dell'Irpef. Ma poiché perfino il maggiore o minore impegno nella lotta all'evasione è in questo paese oggetto di contrapposizione e scontro politico, è stato finora impossibile realizzare progressi rilevanti che pure sarebbero possibili, anche se è chiaro che senza un recupero di gettito evaso nessuna seria riforma fiscale è possibile.
Ai fini del controllo dell'evasione l'aspetto decisivo riguarda la possibilità di un riscontro e un controllo sulle transazioni che si verificano nel sistema economico. Le ritenute alla fonte operate per conto dell'amministrazione finanziaria da operatori che non hanno l'interesse o la possibilità di colludere rappresentano l'esempio più evidente di una efficace deterrenza nei confronti dell'evasione che infatti risulta molto bassa per i redditi interessati (in Italia si tratta dei redditi di lavoro dipendente e pensione, dei redditi di capitale, di alcune tipologie dei redditi di lavoro autonomo). Un'analoga funzione svolgono gli obblighi contabili nelle imprese adeguatamente strutturate, cioè quelle di dimensioni o caratteristiche tali per cui una corretta contabilità rappresenta soprattutto una garanzia di controllo per i proprietari prima ancora che per il fisco.
Ne deriva che al centro della strategia di recupero dovrebbero esserci misure che cercano di porre quanto più è possibile sullo stesso piano tutti i redditi e i compensi in modo da ridurre (se non eliminare) la disparità di trattamento che oggi consente ad alcuni di evadere, ed obbliga altri a pagare interamente le imposte.
Uno strumento su cui si è fatto molto affidamento negli anni passati per cercare di migliorare la situazione sono gli studi di settore. Introdotti nel 1993 con voto bipartisan, entrano in vigore nel 1998 (governo Prodi). Essi consistono in uno strumento statistico basato su dati trasmessi dagli stessi contribuenti circa le caratteristiche strutturali dell'attività svolta con l'obiettivo di stimare in maniera attendibile l'effettivo ammontare dei ricavi di ciascuno, al fine di verificare la loro "congruità". Si tratta(va) di un sistema che aspirava a determinare un'adesione di massa da parte dei contribuenti sia perché conveniente, sia perché i "non congrui" avrebbero avuto maggiori probabilità di essere sottoposti ad accertamento.
Fin dall'inizio tuttavia gli studi di settore furono oggetto di interpretazioni ambigue e non corrispondenti alla legge. Le norme, infatti, escludevano esplicitamente che i risultati degli studi di settore potessero essere considerati una "normalizzazione" dei ricavi (e quindi dei redditi), o una loro forfettizzazione. Infatti il governo dell'epoca era contrario a questa ipotesi (ma non tutto il Parlamento) e lo erano anche le categorie per le quali ogni ipotesi di forfetizzazione equivaleva alla reintroduzione della minimum tax. Gli studi di settore, quindi, in base alla legge, forniscono esclusivamente un'indicazione di massima di quanto il fisco si attende da ciascun contribuente, e costituiscono linee guida per l'azione di accertamento degli uffici. In sostanza i contribuenti dovrebbero, in base alla legge, dichiarare i proventi reali e non necessariamente quelli risultanti dallo studio, che sono solo indicativi. Sicché se un'impresa è in perdita è ovvio che essa non deve adeguarsi agli studi, analogamente dovrebbe comportarsi un contribuente strutturalmente non rappresentato dallo studio che lo riguarda, ecc.
Sfortunatamente l'interpretazione corrente fatta propria da commentatori, contribuenti e consulenti è stata, e rimane, proprio quella di considerarli una sorta di minimum tax dovuta in ogni caso; non di rado lo stesso approccio è stato seguito anche dagli uffici. Ciò è alla base delle polemiche che hanno caratterizzato la vicenda degli studi di settore negli ultimi 10 anni; dato che gli studi sono mediamente molto permissivi, le associazioni di categoria li difendono (mentre i sindacati li criticano). Al tempo stesso, poiché per i contribuenti marginali, o con difficoltà congiunturali, essi possono fornire risultati non corretti, le stesse associazioni li contestano chiedendo sistematicamente correzioni, aggiustamenti e modifiche idonee a svuotarli. In sintesi i contribuenti marginali hanno rappresentato in questi anni una sorta di garanzia implicita, degli "scudi umani", a protezione degli evasori veri.
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