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LETTERE CONTEMPORANEE / I caduti della Folgore e il destino occidentale dell'Italia

di Giuliano Amato

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20 settembre 2009

L'ho scritto su queste colonne il 23 agosto e non mi resta che ribadirlo oggi, dopo il tragico attentato di Kabul, che è costato la vita a sei soldati italiani. Il crescere delle perdite può portare a concludere che quel fronte militare non merita tanto e che altri devono essere i modi per combattere il terrorismo in Afghanistan.

Ma le perdite non sono solo italiane (americani e inglesi ne stanno avendo molte di più), là ci siamo per un interesse comune e dunque davanti a un problema che non è solo italiano, ma è di tutta l'alleanza, non possiamo affrontarlo per conto nostro, dobbiamo farlo con gli alleati e con gli Stati Uniti per primi (guidati oggi da un presidente che non ha in questa la "sua" guerra), per condividere poi la soluzione alla quale arriveremo insieme.
È così che funzionano le alleanze e si mantiene la fiducia reciproca.
Sull'Afghanistan ciò sembra esserci sufficientemente chiaro, ma - mi chiedo - lo spirito di alleanza con Washington che sentiamo così forte in quel peculiare contesto deve esistere solo lì o, in forme e con modalità sia pure diverse, ha ragione di operare anche in vicende come quella dei rapporti con la Russia, sui quali invece Europa (e Italia) da una parte e Stati Uniti dall'altra rischiano addirittura di non capirsi?

Intervistato giorni fa dal Corriere della Sera, il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, David H. Thorne, si è detto preoccupato per la nostra dipendenza energetica dalla Russia e tutti vi hanno colto una preoccupazione più ampia, quella di un legame speciale fra noi e Mosca, che evidentemente gli Stati Uniti non gradiscono. Di qui lo sconcerto. Ha senso una preoccupazione del genere, quando è stato proprio il presidente americano a inaugurare con i russi un nuovo corso, fatto di collaborazione e non di conflitto? Insomma, fu Obama a parlare al telefono con Mevdevev e ad avviare quel processo che lo ha portato proprio in questi giorni ad abbandonare la piattaforma missilistica in Europa Orientale progettata da Bush. Un'ottima mossa della diplomazia americana perché si arrivi alla condivisione russa delle progettate sanzioni verso l'Iran. Ma se è così, di che ci si lamenta, come la dobbiamo mettere noi con i russi?

Ecco, la questione è tutta qui, è nel "a chi ci riferiamo quando diciamo noi". Ci riferiamo agli europei, o addirittura ai soli italiani, che instaurano ciascuno la propria separata relazione collaborativa con la vicina Russia, ovvero a quell'insieme più vasto costituito da europei e americani, che è bene concertino ciò che fanno nei rapporti con gli interlocutori problematici dell'arena mondiale e quindi con la stessa Russia?

Che a Mosca non ci sia più un regime comunista lo sappiamo tutti e sappiamo tutti, quindi, che i tentativi di restaurare la frattura che c'era con l'Urss sono del tutto fuori dal tempo. Sappiamo anche, però, che molte cose non ci piacciono dei russi: la loro voglia di ridotarsi comunque di una forza e di un prestigio militare in nome di un nazionalismo che secondo qualcuno li ha resi addirittura paranoici nei confronti dell'Occidente, le pratiche e gli sviluppi istituzionali ancora lontani dalla rule of law (il nome di Anna Politkvoskaja non è il solo a ricordarcelo), la distanza della loro economia da una efficiente economia di mercato, anche per lo spazio che vi hanno avventurieri e mafie.

Lasciamo perdere qui le responsabilità che ha l'Occidente per questi sviluppi russi, sviluppi che sarebbero stati ben diversi se, subito dopo la caduta del comunismo, gli advisors occidentali avessero contribuito non solo a privatizzare le imprese, ma anche a rafforzare le istituzioni centrali di cui ogni economia di mercato ha bisogno. Non ci sarebbe stato il vuoto che ha favorito avventurieri e mafie e che poi Vladimir Putin ha riempito con gli ingredienti di cui disponeva. La realtà di oggi è che la Russia è quella che è, ha più cose che non ci piacciono di quante avrebbe potuto averne altrimenti, ma è pur sempre su una strada che la porta a incontrarci e a condividere con noi diversi interessi di quelli che chiamiamo vitali, dall'Afghanistan all'Iran, dalla lotta al terrorismo al clima, sino a quell'energia su cui il rapporto è particolarmente stretto con l'Europa.

Qual è la conseguenza di uno stato di cose così chiaroscurale? È quella che da tempo diversi autori americani hanno contrapposto alla politica frontale di Bush, auspicando posizioni mai dimentiche che la Russia non è, o non è ancora, un paese assimilabile ai nostri sul terreno dell'affidabilità democratica, senza tuttavia arrivare mai a isolarla e cercando anzi di coinvolgerla sempre di più nella tutela degli interessi che ci accomunano. Vale la pena ricordare che già anni fa si era formato in questo senso un orientamento bipartisan, di cui fu testimonianza nel 2006 un noto rapporto del Council on Foreign Relations, redatto da una task force alla testa della quale c'erano il democratico John Edwards e il repubblicano Jack Kemp ( prematuramente scomparso pochi mesi fa). Il rapporto, intitolato significativamente «Russia's wrong direction. What the United States can and should do» (La direzione sbagliata della Russia. Ciò che gli Stati Uniti possono e dovrebbero fare) era tutto in questa chiave bilanciata, anche se il suo primo messaggio era il ripudio della politica aggressiva dell'amministrazione di allora.

  CONTINUA ...»

20 settembre 2009
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