Janez Potocnik, 52 anni, sloveno, figlio di contadini, ha pochi dubbi. «Agli agricoltori chiediamo sempre di più - dice - ci devono dare cibo buono e sicuro, devono conservare la natura e le risorse, e pure proteggere il nostro patrimonio culturale». E ora c'è dell'altro. Se da un lato il cambiamento climatico aggiunge un tocco d'imprevedibilità ai raccolti, all'agricoltura – che contribuisce al 13% delle emissioni-serra europee – si chiede di contribuire alla «decarbonizzazione» dell'atmosfera. Nonché a proteggere la biodiversità. «Abbiamo bisogno di una Politica agricola comune che protegga le nostre risorse e le gestisca in modo sostenibile», osserva Potocnik.
È l'alba di nuovo contadino. L'agricoltore 2.0, se volete. Più informato, più tecnologico, ma sempre più al servizio della comunità, chiamato a tutelare il bene pubblico su vari fronti: dall'approvvigionamento alimentare alla sua sicurezza, dalla tutela del territorio a quella dell'atmosfera.
La predica non viene da un pulpito qualsiasi. Potocnik, che non ha seguito il padre sui campi, è commissario europeo all'Ambiente. Pochi giorni fa a Bruxelles, durante l'annuale forum «The future of agriculture» organizzato da Syngenta e dall'Elo (la confederazione dei proprietari terrieri), ha strappato più di un applauso dell'affollato auditorio, composto da agricoltori, scienziati, politici e studenti.
Di fatto, il 4,7% della forza lavoro europea – quella che lavora nei campi – gestisce oltre il 50% del suolo dei 27 paesi. Sin dai primi vagiti della Comunità, il sostegno finanziario dell'agricoltura ha rappresentato una grande parte – seppur decrescente – del budget europeo. La Politica agricola comune, meglio conosciuta come Pac, è stata corretta più volte nel tempo, e la riforma del 2003 ha già introdotto il ruolo dell'agricoltore a servizio del «bene pubblico». Ma adesso, con la prossima riforma attesa per il 2013, a Bruxelles gira l'idea di spingersi un po' più avanti.
«L'attuale Pac già prevede 37 miliardi in cinque anni per i servizi ambientali da parte di agricoltori e proprietari delle foreste – dice Potocnik – ma bisogna fare molto di più: sostegno finanziario aggiuntivo per i contadini che si impegnano volontariamente nell'agricoltura sostenibile». Ed è qui, che l'applauso è stato più fragoroso.
L'agricoltura dei Ventisette produce quasi 60 milioni di tonnellate all'anno di anidride carbonica. Ma non c'è solo la CO2. Anche il protossido d'azoto (che deriva dall'uso di fertilizzanti) e il metano (prodotto dagli allevamenti) sono due gas-serra. Le cui emissioni sono diminuite del 20% negli ultimi vent'anni, ma c'è spazio per un miglioramento. Però l'Europa dovrebbe fare una cosa politicamente ardita: aumentare di nuovo i fondi per l'agricoltura. «C'è poco da fare – sintetizza Ettore Capri, professore della Cattolica specializzato nei rischi alimentari – per questo nuovo lavoro, bisogna corrispondere uno stipendio».
Ma c'è una novità. Pochi giorni fa, su richiesta di tre gruppi parlamentari, Strasburgo ha ottenuto d'includere il sistema agroalimentare nella cosiddetta strategia «20-20-20», quella che punta a ridurre le emissioni del 20% e ad aumentare l'efficienza energetica del 20% entro il 2020. «Era una lacuna che andava sanata», dice soddisfatto Paolo De Castro, presidente della Commssione agricoltura all'Europarlamento. Ma questo non vuol dire che i soldi per finanziare la «decarbonizzazione» dell'agricoltura ci siano. «Occorre cambiare mentalità e riconoscere fino in fondo il servizio pubblico di 30 milioni di agricoltori europei», taglia corto Allan Buckwell, direttore delle politiche dell'Elo.
Se l'urgenza di una nuova agricoltura è innegabile, a guardare più in grande diventa addirittura irrinunciabile. «Nel mondo ci sono 1,6 miliardi di ettari coltivati – spiega Alexander Sarris, direttore Commercio e mercati della Fao – ma entro metà secolo dovremo aumentare la produzione del 70%, per sfamare i nuovi nati e migliorare la disponibilità delle proteine». Che ne sarà della biodiversità? E delle risorse idriche? Dell'erosione dei suoli? «Se l'effetto-serra non sarà contrastato, avrà un serio impatto sulla nostra capacità di produrre cibo», rincara Franz Fischler, ex commissario all'Agricoltura e papà della riforma del 2003. O quantomeno, aumenterà la volatilità dell'offerta e, quindi, dei prezzi. «Oggi la Russia esporta tanto grano quanto quello importato ai tempi sovietici», ricorda Dmitri Rylko, direttore dell'Ikar, un'istituto russo di agraria. E non solo perché l'agricoltura è più efficiente. «Quest'inverno è stato freddo. Ma negli ultimi anni, siamo riusciti a seminare molto più a nord di un tempo».
Siamo nel territorio dell'incertezza. Ma per Sarris e la Fao qualche certezza c'è: «Nel lungo periodo l'Europa sarà in deficit di cibo, i Bric (Brasile, Russia, India e Cina) saranno esportatori netti e i paesi poveri ancor meno autosufficienti di oggi». Se si pensa ai due miliardi di bocche in più da sfamare, la sicurezza alimentare non è uno scherzo.
L'italiano "sicurezza" è un po' troppo vago. In inglese, si può distinguere fra food security (la sicura disponibilità di risorse alimentari) e food safety (la sicurezza dei requisiti sanitari). L'Europa ha le più severe norme sulla food safety al mondo. Ma non farà mai abbastanza attenzione alle incerte prospettive della sua food security. I sussidi all'agricoltura – in una lunga storia d'inefficienze, sprechi ed errori – vengono troppo facilmente contestati. Ma, alla luce della safety e della security delle nostre tavole, assumono un grande significato.
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