Il presidente Napolitano ha espresso a Damasco la sua sacrosanta preoccupazione per il progetto israeliano di nuovo insediamenti a Gerusalemme Est e cioè in quella che dovrebbe diventare la capitale del futuro stato palestinese. E sebbene nelle ultime ore il primo ministro Benjamin Netanyahu abbia cercato di addolcire la pillola, promettendo la realizzazione non immediata del progetto e altre misure di alleggerimento nei confronti degli stessi palestinesi, la comunità internazionale e in primo luogo gli Stati Uniti continuano a osservarlo con i medesimi sentimenti espressi dal nostro presidente.
Ci si chiede perché abbia fatto una scelta esattamente opposta a quella chiestagli da Washington, che si aspettava come minimo il congelamento degli insediamenti esistenti, e perché l'annuncio sia stato dato tanto platealmente all'arrivo a Tel Aviv del vice-presidente americano Joe Biden.
Quello che si sta riaffacciando, con crescente concretezza, è l'incubo del quale parlai in una mia Lettera di qualche settimana fa, l'incubo di un'Israele che, prigioniera dei suoi vincoli interni, una mossa dopo l'altra rende impossibile la soluzione dei due stati e si trova ineluttabilmente sul percorso di quella "one state solution", che da ultimo può portare alla sua scomparsa per inesorabili ragioni demografiche.
Già lo svolgimento dei fatti testimonierebbe in questo senso. I giornali israeliani avevano dato notizia da tempo che, ben prima della visita di Biden, Netanyahu, in una riunione a porte chiuse, aveva assicurato alla leadership dei coloni (gli abitanti degli insediamenti) che il suo governo avrebbe accettato in linea di principio il nuovo stato, ma avrebbe posto condizioni inaccettabili anche per i più moderati fra i palestinesi, a partire dalla negazione di Gerusalemme Est.
In più, che l'annuncio pubblico di un tale proposito sia giunto mentre arrivava Biden è stato letto come un autentico atto di sfida agli Stati Uniti che, al di là delle stesse intenzioni, poteva avere soltanto l'uno o l'altro dei due significati seguenti: o che Israele intende fare a meno della forza degli Stati Uniti o che Israele ritiene che quella degli Stati Uniti sia oggi una debolezza e che di conseguenza la si possa trattare anche così.
È impossibile non leggere in tutto ciò una propensione al suicidio o, se si vuole, una tale chiusura entro l'orizzonte di breve termine da essere ciechi davanti al futuro. Ma ci si rende conto che cosa significa per il futuro d'Israele fingere di accettare lo stato palestinese e renderlo nel frattempo impossibile, con tutte le tensioni che questo alimenta, compresa quella ostilità reciproca che andrebbe invece fatta placare?
Non è solo il presidente Napolitano a sottolineare giustamente che lo stato palestinese potrà nascere solo se sarà uno stato "vitale". Come ha ricordato Henry Siegman sul Financial Times del 5 marzo, fu il primo ministro israeliano Ehud Olmert, quando ancora era in carica, ad ammonire che, una volta che i progetti di nuovi insediamenti siano diventati irreversibili, «Israele corre il pericolo di diventare uno stato apartheid».
Apartheid. È una parola che non vorremmo sentir pronunciare a proposito di uno stato in cui molti di noi s'identificano, perché vi riconoscono tratti essenziali della nostra storia e della nostra civiltà. Eppure è stato un primo ministro israeliano a pronunciarla, evocando così una tragica esperienza della storia recente, che ha avuto nell'apartheid una tappa lunga e tormentata a seguito della quale, non nei fazzoletti di terra voluti dalla minoranza al potere, ma in tutto lo stato si sono imposte le ragioni della maggioranza discriminata.
È dunque questo il percorso della "one state solution", ormai predicata e attesa da molti palestinesi e da buona parte del mondo arabo. Ammesso che lo voglia, può Israele evitarla senza il forte sostegno degli Stati Uniti, essenziale non soltanto alle spalle dei negoziati bilaterali israelo-palestinesi, ma anche per creare nella regione il clima di distensione e di sicurezza per tutti, che è non meno necessario perché i negoziati approdino a risultati utili e soprattutto capaci di radicarsi nei fatti?
E qui viene ciò che della mossa di Netanyahu più ha messo in agitazione Washington. In una parte del mondo percorsa da tensioni che ad ogni momento possono degenerare in conflitti armati, gli Stati Uniti sono, e sono sempre stati, l'unica vera assicurazione di cui Israele dispone. Certo, lo stato ebraico ha un esercito e un armamento eccezionali per le sue dimensioni. In più, per difendere il proprio diritto ad esistere è pronto a combattere sino alla morte. È vero, ma come hanno notato in questi giorni diversi commentatori americani, la realistica speranza di sopravvivere come stato ebraico senza trovarsi a combattere sino alla morte, a Israele la dà solo la forza americana.
Davvero contro-producente, allora, lo schiaffo di Netanyahu se scontasse un distacco dal maggiore alleato. Ma è stato dannoso anche per le sue ripercussioni nel mondo arabo e più ampiamente in quello musulmano. Questi sono mondi molto sensibili alla forza in campo internazionale. Vivono ancora l'umiliazione di averla perduta con la caduta dell'Impero ottomano e con il colonialismo occidentale ed è per loro una permanente umiliazione quella di trovarsi in un mondo segnato e guidato dalla forza di altri.
CONTINUA ...»