Un anno fa, all'apice del panico, il mondo desiderava ardentemente un settore finanziario redditizio e sicuro di sé. Ora ce l'ha, ma non è per niente contento. Con la disoccupazione che sale alle stelle e milioni di persone che vedono frustrate le proprie speranze, i superstiti della finanza prosperano allegramente. Perfino i bonus sono tornati. Le autorità hanno fatto un patto faustiano. Il successo ha il sapore del fallimento. Ma successo è stato. La capitalizzazione di mercato delle banche si è ripresa alla grande, e questo non è solamente il segnale di una fiducia nel futuro delle banche, rende anche loro più facile raccogliere capitali, specialmente, afferma il Global financial stability report dell'Fmi, nella zona euro.
Questa ripresa non è un caso. Nel momento in cui il denaro delle banche centrali è praticamente gratuito, i prezzi degli asset a rischio sono in ripresa e la concorrenza è sparita o indebolita, fare soldi è relativamente semplice per i solidi superstiti. Con gli utili che ripartono, si può forse sperare che non ripartano anche i bonus? Ahimé, no. Secondo una recente nota del londinese Centre for economics and business research, le gratifiche nella City quest'anno aumenteranno del 50%, anche se rimarranno del 40% al di sotto rispetto al 2007.
Eppure pochi sono desiderosi di prendersi il merito di questo successo. Le autorità sono restie a dichiarare che grazie ai loro sforzi i banchieri superstiti potranno comprarsi delle regge, mentre il cittadino comune teme di perdere casa e lavoro e ha davanti a sé decenni di cinghia tirata. Guardare ai finanzieri, che hanno goduto del salvataggio pubblico più generoso di tutti i tempi, tornare ai vecchi metodi provoca non tanto invidia, quanto un risentimento astioso. Perché, si chiedono in molti, i rigori del mercato colpiscono più brutalmente chi non ha nessuna colpa in questa catastrofe? Secondo il Fondo monetario internazionale, la somma che le economie avanzate hanno sborsato in iniezioni di capitale, acquisto di attività, garanzie e fornitura di liquidità equivale al 30% del prodotto interno lordo.
Inoltre, quasi tutte le entità finanziarie - sia quelle forti che quelle deboli - hanno beneficiato di questa munificenza. Come ha osservato il governatore della Banca d'Inghilterra Mervyn King, «per parafrasare un grande leader dei tempi della guerra, mai nel campo della finanza così poche persone devono così tanto denaro a così tante persone. E, si potrebbe aggiungere, fino a questo momento con pochissime riforme reali».
Rimango del parere che l'unica cosa peggiore di salvare il sistema sarebbe stato non farlo. Anche due critici temibili come Peter Boone, della London school of economics, e Simon Johnson, del Massachusetts institute of technology, concordano, in un articolo uscito recentemente su The new republic, che quella era una decisione che «dovevamo prendere». Ma un simile esercizio di potere sovrano a beneficio di un unico settore ha le sue conseguenze. Una di queste è giurare «non lo rifaremo una seconda volta». A dire il vero, per molti governi rifarlo una seconda volta potrebbe essere impossibile, perché sarebbe a rischio l'affidabilità creditizia. Come sottolinea Lawrence Summers, il principale consulente economico di Barack Obama, le premesse c'erano tutte. Summers ha osservato la settimana scorsa che «più o meno ogni tre anni, nel corso dell'ultima generazione, un sistema finanziario pensato per gestire, distribuire e controllare il rischio è stato in realtà la fonte del rischio, con conseguenze devastanti per lavoratori, consumatori e contribuenti».
Com'era prevedibile, nel settore sono in molti a opporsi con tutte le loro forze alla regolamentazione. In un'intervista al Financial Times, Marcus Agius, presidente di Barclays, indica alla perfezione con cosa devono fare i conti i fautori della regolamentazione. Comincia insistendo su «condizioni uguali per tutti» nei vari paesi. Critica anche la fissazione di requisiti patrimoniali eccessivi, perché «la prossima volta che il sistema bancario cercherà capitali, non li otterrà se i potenziali nuovi investitori non vedranno la convenienza». Inoltre, «una delle altre conseguenze sarà che il credito diventerà più costoso, e questo non favorisce un ritorno alla crescita globale». Agius insiste anche sul fatto che «le banche non devono essere denigrate perché si assumono dei rischi».
Tutto questo convince assai poco. Secondo l'Fmi, le svalutazioni contabili sugli asset bancari del Regno Unito ammonteranno a 604 miliardi di dollari, contro 814 miliardi per l'Eurozona e 1.025 miliardi per gli Stati Uniti. Eppure l'economia americana è sei volte quella britannica. I cuculi inglesi sono troppo grossi. La regolamentazione dovrà tener conto di queste differenze. Inoltre, l'argomento che le banche non riusciranno a raccogliere capitali se i rendimenti saranno bassi va contro la logica: la sola ragione per cui le banche devono raccogliere così tanto capitale è che si sono assunte rischi eccessivi per perseguire rendimenti insostenibilmente alti. Sì, il credito probabilmente diventerà più costoso, se si fisseranno requisiti patrimoniali più alti. Ma l'offerta di credito era eccessiva e andava limitata. Infine, come sottolinea King, non ci si può aspettare che le banche troppo grandi o importanti per fallire gestiscano il rischio con assennatezza. In un'economia di mercato, l'assunzione di rischi è disciplinata dalla bancarotta, non puntellata dai contribuenti.
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