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La solidarietà reinventa la tecnologia

di Carlo Giorgi

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22 febbraio 2010

Le onde impetuose del fiume sacro Urubamba, a fine gennaio, hanno inondato tutti i canali televisivi del mondo. Sulle pendici del Machu Picchu, in Perù, erano rimasti intrappolati 1.400 turisti, tra cui alcune decine di italiani; la forza della corrente aveva devastato la linea ferroviaria che da Cuzco conduce al paesino di Aguas Calientes, ai piedi del famoso sito Inca, impedendo ai turisti la fuga, come in un thriller. «È esattamente dove abbiamo appena realizzato un nostro progetto», racconta Luca Falconi, ricercatore all'Enea e responsabile dei progetti nel mondo di "Geologia senza frontiere", onlus italiana di professionisti che lavorano nel campo della cooperazione internazionale. «Il villaggio di Aguas Calientes è cresciuto a dismisura per via del turismo e oggi è a serio rischio alluvionale e di frane. Assieme a due università peruviane e a un'associazione spagnola, così, abbiamo realizzato e consegnato alle autorità una mappa di rischio del territorio; abbiamo, inoltre, promosso incontri formativi in università e con la popolazione, per spiegare come comportarsi in caso di pericolo».

Anche i professionisti delle discipline tecniche - geologi, ingegneri e architetti - hanno un ruolo importante nella cooperazione con i paesi del sud del mondo. In caso di cataclismi non sono certo i primi a sbarcare e lasciano l'onore (e l'onere) della ribalta a medici e infermieri. Tuttavia, quando la tempesta si placa, vengono reclutati da Ong e associazioni per realizzare progetti di sviluppo che guardino al futuro. E il loro contributo, in questo caso, diventa fondamentale.
In Italia, negli ultimi vent'anni, sono nate e cresciute diverse associazioni di professionisti votati alla cooperazione. "Ingegneri senza frontiere" è di certo la più diffusa e deve il suo successo al legame con l'università. Isf nasce, infatti, nel 1996 al Politecnico di Torino. Oggi è presente in 22 città universitarie italiane con sedi autonome che si rifanno però alla stessa "Carta dei valori".

«Lavorare da ingegneri a un progetto di cooperazione ti porta soprattutto a cambiare l'idea che hai della tecnologia - spiega Toni Sgalambro, 33 anni, ricercatore all'università "La Sapienza" di Roma e membro di Isf -. In Occidente siamo portati a pensare che la tecnologia abbia un valore assoluto e vada preferita comunque e sempre la più sofisticata. Invece, lavorando nei paesi in via di sviluppo, ti rendi conto che il valore della tecnologia è relativo all'autonomia che offre alle popolazioni che stai aiutando. Meglio portare una tecnologia semplice, ma gestibile dalla comunità a cui serve, piuttosto di una tecnologia sofisticata che rende la comunità dipendente dai tecnici».

I progetti portati avanti dalla sede romana di Isf vanno in questa direzione: «Una comunità di contadini del Madagascar ci ha chiesto aiuto per realizzare una radio, utile a mantenere i contatti tra loro - racconta Silvio Arcangeli, 34 anni, ingegnere delle telecomunicazioni -. Il problema da risolvere era quello dell'approvvigionamento energetico. Così abbiamo pensato a un mix di due soluzioni: da una parte pannelli fotovoltaici; dall'altra un eolico auto-costruito, con pale di legno del diametro di cinque metri in tutto. Un sistema meccanico, facile da riparare e capace di produrre 6-7 kilowattora giornalieri, quanto basta al funzionamento della radio».
«Nel centro di salute del villaggio di Nyololo, in Tanzania, invece, c'è il problema del riscaldamento - spiega Giuseppe Orsini, 26 anni, ingegnere energetico -. Il villaggio è a 1.800 metri di altitudine e molte donne preferiscono partorire a casa per via del freddo pungente che si prova in ospedale. Con la comunità locale stiamo realizzando il sistema di riscaldamento dell'acqua con solare termico auto-costruito, e il riscaldamento degli ambienti con stufe in mattoni, di semplice realizzazione».

A Milano Isf è un gruppo intergenerazionale, composto da una cinquantina tra studenti, laureati e docenti di ingegneria: «L'esperienza di cooperazione offre all'ingegnere un valore aggiunto - afferma Emanuela Colombo, 39 anni, vicepresidente di Isf Milano e docente del Politecnico -. Costringe a un'applicazione della tecnologia non più acritica. Sei indotto a chiederti sempre perché scegli una tecnologia e che conseguenze questa scelta avrà. Inoltre, le aziende ci dicono che oggi agli studenti mancano le cosiddette soft skill, per esempio la capacità di mediare o di guardare i problemi in un'ottica sistemica. Abbiamo sperimentato che chi ha la fortuna di lavorare nella cooperazione acquisisce queste competenze».

Le università tecniche, insomma, scoprono sempre di più che la cooperazione è formativa. Così sbocciano corsi e dottorati sul tema. Nel 2006 nasce il Cucs (Coordinamento universitario cooperazione allo sviluppo), che oggi riunisce oltre 20 atenei con protocolli firmati dai rettori e delegati che si riuniscono periodicamente.

A Brescia, nel 2000, presso la facoltà di ingegneria nasce il Cetamb, Centro di documentazione e ricerca per le tecnologie appropriate per la gestione dell'ambiente nei paesi in via di sviluppo. In dieci anni oltre 50 missioni e tesi di laurea, dottorati e collaborazioni con Ong. «I nostri studenti quando tornano da queste esperienze hanno una marcia in più - spiega Carlo Collivignarelli, 63 anni, professore dell'università di Brescia e responsabile del Cetamb -. Etimologicamente sono davvero capaci di "ingegno" nella risoluzione di problemi anche senza l'apporto delle tecnologie più moderne».

  CONTINUA ...»

22 febbraio 2010
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