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LA GRANDE RECESSIONE / L'era della nuova prudenza

di Daniel Yergin

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22 OTTOBRE 2009

Ora che la peggiore crisi che abbia mai vissuto il capitalismo dagli anni 30 in poi sta scemando d'intensità, a che punto è il capitalismo stesso? Sicuramente si sente parlare meno della "magia del mercato". Ora l'attenzione si è spostata su quello che non va nel mercato, con amarezza, diffidenza e ostilità esplicita. In tutto il mondo i governi riprendono in mano i capisaldi dell'economia, anche se in modo improvvisato, più da intervento dei pompieri che da master plan.
Perfino negli Stati Uniti gli equilibri sono cambiati. Ora è Washington la capitale dell'industria automobilistica, energetica e finanziaria; l'Europa sta resuscitando l'"economia mista"; in Cina, il ruolo dello stato torna ad espandersi. L'ago della bilancia fra stato e mercato torna a pendere dalla parte dello stato? La gente deciderà che lo stato è necessario per proteggersi dai mercati, oppure concluderà che la crisi ha dimostrato la sostanziale solidità di questi ultimi?
L'interpretazione della crisi che emergerà come narrazione dominante determinerà le risposte a queste domande. Quando parlo di "narrazione" non mi riferisco semplicemente ai drammatici resoconti dello svolgimento degli eventi, ma alla spiegazione di quello che è successo e al quadro concettuale entro cui concepire il futuro. Sono una dozzina le linee narrative della Grande Recessione.
Un eccesso di leva finanziaria - incautamente consentito da una regolamentazione inadeguata e male indirizzata e da rating del credito inadeguati, e rafforzato dai bassi tassi d'interesse - ha creato una montagna di debito instabile e troppo alta, che ha finito per franare sotto il suo stesso peso.
La rapida innovazione degli strumenti finanziari non ha attenuato il rischio, anzi lo ha concentrato e amplificato in modi che pochi prevedevano e che non erano adeguatamente regolamentati.
La regolamentazione non si estendeva al "settore bancario ombra" e si è rivelata inadeguata per quelle banche complesse e internazionali, "troppo grandi per fallire". I regimi normativi hanno finito, con effetto perverso, per incoraggiare le banche a sovraccaricarsi di debiti, e di conseguenza a prestare meno attenzione ai rischi.
Le politiche tese a estendere il numero dei proprietari di case e imprese semipubbliche come la Fannie Mae, hanno creato, con il concorso di pratiche creditizie predatorie e ingannevoli nel settore privato, un universo insostenibile di mutui subprime.
L'alto indebitamento ha trasformato gli Stati Uniti in una sorta di nazione emergente-supernova, alimentata dalla massa di risparmi globali, esponendoli a una crisi del debito superesplosiva, molto più grande della crisi dei mercati emergenti della fine degli anni 90.
L'equilibrio oscillante fra "paura e avidità" si è sbilanciato drammaticamente dal lato dell'avidità: il rischio è stato sottoprezzato e sottovalutato. La prudenza veniva penalizzata e le aziende colpevoli di "pesantezza" non avevano speranze. Le retribuzioni sono cresciute troppo, vincolando individui e istituti di credito ai rischi crescenti.
La psicologia degli investitori, alimentata dal credito facile, ha creato bolle "shilleresche" nel settore immobiliare, nel settore energetico e in altri settori, che alla fine sono scoppiate con effetti devastanti.
Dal momento che ogni boom contiene in sé i semi del crack successivo, la crescita economica globale più forte da una generazione a questa parte ha generato superbia e gettato le basi per una forte recessione.
La globalizzazione ha creato vulnerabilità che non sono state comprese, in particolare nella syndication del debito, ma anche nelle catene logistiche globali, che hanno funzionato come cinghie di trasmissione al contrario, trasferendo l'impatto della crisi su lungo la catena.
L'impennata dei prezzi delle materie prime, in particolare del petrolio, ha messo in difficoltà i gruppi a basso reddito e ha contribuito a mettere al tappeto Detroit, ben prima del fallimento della Lehman Brothers.
Per quelli che già tendenzialmente la pensavano in questo modo, la crisi ha fornito la prova che il sistema di mercato è predestinato alle crisi perché è truccato, specchio di quello che considerano il male intrinseco del capitalismo.
C'è ancora un'altra spiegazione, quella che lo storico Gordon Prange individua come la ragione numero uno per l'attacco di Pearl Harbour del 1941, e cioè la convinzione che "non potrebbe mai succedere". Ancora nel 2006, quasi tutti concordavano che il tipo di disastro che stava per verificarsi era impossibile.
Altri possono raccontare altre storie. Molte di queste si sovrappongono, alcune si contraddicono. Sarà la velocità e la portata della ripresa a stabilire quale di queste narrazioni prevarrà sulle altre. Ma nei prossimi anni i governi giocheranno un ruolo più importante nell'economia, e andranno a caccia di formule normative che possano "garantire" che una crisi di questo genere non torni a ripetersi.
La narrazione sarà determinata dal modo in cui la gente interiorizzerà il rischio. La Grande Recessione sarà seguita dalla Nuova Prudenza, trasformando le abitudini di spesa e di risparmio della popolazione, penalizzando la crescita futura? La prudenza peserà di più sui mercati finanziari? Le persone che avevano vissuto la Grande Depressione erano profondamente avverse al rischio ed erano restie a comprare azioni o a tenere troppi soldi in una banca sola.
  CONTINUA ...»

22 OTTOBRE 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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