Le ragioni di chi denuncia i ritardi della crescita economica italiana rispetto a quella dei paesi vicini e di chi invece si aggrappa ad alcuni dati incoraggianti di competitività sono corrette entrambe, pur con diversi gradi di realismo, e non sono per forza in contraddizione: la crescita italiana declina, ma alcuni settori del paese stanno ancora rispondendo con vitalità. Tuttavia è proprio ciò che rende compatibili questi due fenomeni divergenti a disegnare i profili delle lacerazioni italiane, davvero uniche per dimensione.
Un indicatore delle contraddizioni italiane è il tasso di cambio reale effettivo (Reer), cioè il valore dell'euro calibrato sui costi o sui prezzi italiani (ponderato in ragione dell'export delle nostre imprese verso i diversi paesi). Se il tasso di cambio effettivo reale aumenta rispetto a quello degli altri paesi, si perde competitività. Ci sono in realtà due diversi indicatori del Reer pubblicati dall'Fmi. Il primo, per semplificare, depura il tasso di cambio nominale del livello dei costi unitari del lavoro, il secondo invece lo depura del tasso d'inflazione.
Per misurare la competitività di un esportatore rispetto a un altro si dovrebbe confrontare il prezzo a cui entrambi vendono; stranamente, però, è prassi prendere a riferimento l'indicatore di costo e basare i rapporti di competitività soprattutto sul livello dei costi del lavoro. Questo accade essenzialmente per utilità, la politica economica infatti può più facilmente influenzare il livello dei salari che non il livello di formazione dei prezzi. Si tratta d'indicatori complessi, costruiti con tecniche non del tutto trasparenti. Ma, dei due, quello meno affidabile è certamente proprio quello che stima il costo degli input alla produzione.
Ebbene non c'è paese nell'Unione Europea che abbia un divario tra i due indicatori, costi o prezzi, tanto ampio quanto quello italiano. Se si misura la competitività in ragione dei costi, l'Italia sembra condannata. Tra il 2001 e il 2008 l'aumento dell'indice è del 35% superiore a quello della Germania. In pochi anni l'Italia sembra dunque essere stata completamente spiazzata nel rapporto di competitività. Se si misura invece il tasso di cambio reale in base all'indice dei prezzi al consumo, il differenziale italo-tedesco quasi scompare riducendosi a solo il 3 per cento.
Non voglio dare troppa importanza ai livelli degli indici di competitività (su cui andrebbe specificato almeno l'andamento dei valori medi unitari dell'export) ma quello che emerge è che in Italia la differenza tra i costi interni e i prezzi attraverso i quali il sistema produttivo compete con l'estero è esorbitante. Usando i dati della Bce il fenomeno è un po' attenuato, ma la differenza con gli altri paesi resta fortissima. Per intenderci, in Grecia e Spagna la differenza tra indicatori di competitività basati sui costi o sui prezzi è un terzo di quella italiana. È come se all'interno del paese accadesse qualcosa di unico in Europa che riassorbe le divergenze nei costi del lavoro per poter competere con l'estero.
In passato, influenzati anche da letture ideologiche centrate sul rapporto lavoro-capitale, la questione sarebbe stata interpretata come un fenomeno di redistribuzione dai profitti delle imprese esportatrici ai salari dei lavoratori. Ma le statistiche dei redditi, benché anch'esse non tanto affidabili, non mostrano affatto un simile modello.
Un'interpretazione diversa deve tenere conto del fatto che l'ambiente politico e sociale italiano va visto in ragione dell'apertura dell'economia, dei vincoli esterni alla politica fiscale e delle risposte che si sono sviluppate all'interno dei confini nazionali. Quello che il differenziale tra prezzi e costi sembra dimostrare è che molti fenomeni avvengono nella crescente distanza tra gli indicatori ufficiali del lavoro e quelli del mercato non ufficiale del lavoro. Non solo lavoratori in nero, ma forme molto flessibili d'impiego che sfuggono in gran parte dalle rilevazioni ufficiali sulla competitività di costo. Allo stesso modo sfuggono una serie di altri aggiustamenti dei costi interni a una società sempre meno definita dai propri confini sia politici sia sociali, con imprese che si trasformano da produttori classici a intermediari, con vistose forme di outsourcing e di spostamento delle imprese verso attività immateriali e in una società divisa tra economia ufficiale e non, tra contribuenti fiscali e non e tra fattori mobili e fattori immobili.
Ciò che la schizofrenia degli indicatori di competitività ci racconta è in sostanza che la globalizzazione e la competizione europea hanno disciplinato le imprese, costringendole a razionalizzazioni veementi a fronte di un quadro politico e sociale che non ha risposto alle emergenze globali. La società italiana sta reagendo con spasmi molto forti: la sostituzione di lavoratori a tempo indeterminato e molto tutelati con lavoratori precari o con lavoratori autonomi, lo spostamento delle produzioni intermedie verso paesi a basso reddito (il cosiddetto effetto bazaar) e infine il ricorso al sommerso e l'asimmetria nel rispetto della legalità a seconda delle diverse regioni.
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