Caro direttore,
la novità annunciata dal «New York Times» in settimana, con il ritorno ai contenuti a pagamento su internet, è un passo importante nella ricerca comune di un nuovo modo di fare i giornali, cartacei o elettronici che siano. Lo sviluppo della Rete in questi anni non sarebbe stato così impetuoso senza il contributo dell'informazione.
Via via un numero crescente di utenti s'è abituato a trovare gratis sui siti tutti gli aggiornamenti e, talvolta, gli approfondimenti e i commenti di cui ha bisogno. E il successo di un sito come Repubblica.it sarebbe senza precedenti se fosse valutato solo con i parametri del numero dei suoi visitatori o della sua capacità d'influire sull'agenda quotidiana del paese.
Ma un editore non può prescindere dal bilancio, anche perché quando i conti non tornano è la libertà d'espressione a soffrirne per prima e di più. L'errore degli editori è stato puntare tutto sulla pubblicità, quasi che potesse esserci una quota aggiuntiva di investimenti da dedicare a internet e in particolare a chi fornisce notizie online. Non è così: nei budget degli investitori, com'è naturale, la pubblicità è stata dirottata sulla rete dalla stampa, soprattutto. Niente di preoccupante in momenti di crescita dell'intero sistema, una sventura in tempi di crisi globale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nel 2009 i giornali hanno perso oltre un quarto dei propri introiti pubblicitari, solo in parte infinitesima recuperati dai loro servizi su internet.
Far pagare le notizie di qualità su internet è parte del mix di misure anticrisi che gli editori stanno definendo. Il «New York Times», i quotidiani della galassia di Rupert Murdoch, quelli di Axel Springer in Germania stanno per mettere in vendita una quota dei propri contenuti informativi digitali. Se si offre un buon prodotto, chiunque capisce che è ragionevole pagarlo, sia che se ne fruisca sul cellulare sia online.
Il dibattito sul Sole 24 Ore, da Lei aperto, ha centrato questo problema: la Rete non può restare un Far West senza regole o una Somalia in balìa dei signori della guerra, dove tutto è gratis e la pirateria non è un reato. E questo nulla ha a che fare con la splendida libertà d'espressione e comunicazione che internet offre e che va difesa.
Allo stesso modo Google non può sfruttare i contenuti prodotti da altri senza dare nulla in cambio. È un problema che gli editori tedeschi hanno denunciato nei giorni scorsi alle proprie autorità regolatorie, proprio come l'associazione italiana della categoria aveva fatto ad agosto con un esposto all'Antitrust. Google deve restituire una parte del valore immenso creato ogni giorno dai giornalisti, che il motore monetizza grazie alla pubblicità AdSense.
Come Google, molti altri soggetti, dagli aggregatori alle rassegne stampa, non rispettano le regole che tutelano i diritti di proprietà intellettuale. Questi diritti devono trovare una definizione legislativa più netta e, soprattutto, ampliarsi. Dobbiamo pertanto rilanciare la protezione del copyright, studiando l'adozione di software e sistemi che consentano un reale controllo dell'uso e del rispetto dei diritti connessi a ciascun contenuto. Nel Regno Unito è operativo un database di ritagli digitali dei giornali cartacei gestito dalla Newspaper Licensing Agency, cui partecipano i maggiori editori. Chi accede al database e preleva un ritaglio, deve pagare. I guadagni vengono divisi pro quota tra gli editori. Facciamolo anche noi.
Curiosamente, gli editori italiani hanno un altro atout da giocare. Da noi quasi nessun quotidiano mette a disposizione live e gratuitamente sulla Rete il contenuto prodotto per la carta. Gli articoli pubblicati sul giornale sono cioè custoditi per almeno 24 ore in quello che in inglese viene definito un walled garden, accessibile online solo dietro pagamento di un abbonamento. Se prendessimo questa grande massa di informazione, la mettessimo sui nostri siti e la facessimo indicizzare da Google e dagli altri motori, rendendola ricercabile, faremmo un buon servizio all'utenza e, se a pagamento, ci garantiremmo ricavi aggiuntivi.
Se lo volesse, Google potrebbe così trasformarsi in un equo distributore della ricchezza creata grazie al lavoro altrui; e avremmo bell'e pronto il sistema di pagamento universale suggerito su queste pagine da John Tierney. Un segnale positivo in questa direzione c'è: qualche settimana fa c'è stato un cambiamento epocale nella politica di Larry Page e Sergei Brin, che con il servizio First Click Free hanno accettato il principio che il contenuto dietro un walled garden debba, una volta indicizzato, essere pagato anche se raggiunto direttamente attraverso il motore di ricerca. Finora non era così, nel senso che tutto quanto immagazzinato nei server dell'azienda di Mountain View era, per definizione, fruibile gratuitamente online. Bene, se Google accettasse di riscuotere per conto degli editori i pagamenti legati a determinati contenuti, si potrebbe cominciare a ragionare. Come si ragiona tra partner, non come i sudditi ricevuti in udienza dal sovrano.
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