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Fiammiferi, spesa pubblica e i numeri Made in Italy

di Marco Fortis

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25 aprile 2010

La crisi economica mondiale nel 2009 ha colpito duramente l'export italiano. Ma la stessa cosa è accaduta con uguale intensità, se non superiore, a tutti gli altri maggiori paesi esportatori, Germania e Giappone in testa. In periodi così difficili, in cui tutti subiscono perdite pesanti, la cosa più importante per un paese è conservare le proprie leadership in attesa di momenti migliori e, se possibile, nel caso dell'Italia, avvantaggiarsi, pur nelle traversie del momento, della maggior crisi dei nostri concorrenti rispetto a noi. Questi sono, piaccia o no, i nudi fatti.

Poi c'è il dibattito, che pure serve, ma che dovrebbe mantenersi nei binari dell'oggettività. Purtroppo, nelle fasi economiche più problematiche riaffiora costantemente in Italia la sindrome del declino. Ma occorre distinguere in modo netto tra crisi e declino e tra imprese e paese. Nel recente convegno di Confindustria di Parma i media hanno enfatizzato molto la contrapposizione che sarebbe emersa tra il rischio di declino del paese paventato dal Centro studi di Confindustria e l'immagine proposta dal premier Silvio Berlusconi di un'Italia che resiste alla crisi. La cosa ci riguarda indirettamente, visto che in tale occasione il presidente del Consiglio ha citato a supporto delle sue tesi alcuni dati della Fondazione Edison sulla resilienza dell'export italiano, da noi presentati sul Sole 24 Ore del 6 aprile scorso ("Italia 2010: una realtà nascosta dai numeri").

Tuttavia, le polemiche che sono seguite a questa vicenda non hanno colto il reale nocciolo della questione, che a nostro avviso si può riassumere nei seguenti termini. Occorre separare il giudizio sulle imprese (in particolare quelle esportatrici che competono sui mercati internazionali) dal giudizio sul paese nel suo complesso. In estrema sintesi si potrebbe dire che in questo momento le imprese manifatturiere sono in crisi (ci mancherebbe altro, data la gravità della recessione mondiale) ma non in declino, mentre l'Italia invece è assai meno in crisi di tanti altri paesi, al di là di ciò che dice il dato del Pil, che è distorto dall'export.

Il nostro paese deve affrontare, tuttavia, rischi reali di declino a medio-lungo termine che vengono non dal lato della competitività manifatturiera bensì dalla spesa pubblica burocratica e improduttiva, da un deficit energetico che continua a pesare sulla bilancia commerciale, dai divari territoriali tra Nord e Sud che si allargano e dalla persistente evasione fiscale. Su questi fronti si gioca il futuro del sistema Italia da cui discende l'importanza delle riforme auspicate anche da Confindustria per scongiurare l'eventuale rischio di un nostro declino, non tanto rispetto ai paesi che negli anni scorsi hanno "drogato" la crescita dei loro Pil con i debiti privati (economie anglosassoni e Spagna) o pubblici (Grecia), quanto rispetto a nazioni virtuose a noi più simili (come Germania e Francia) e alle economie emergenti.
Tutt'altro discorso è quello della competitività dell'Italia nell'export mondiale, che in questi anni abbiamo sempre sostenuto non essere in declino (nella conferenza stampa di fine anno del dicembre 2007 anche l'allora presidente del Consiglio Romano Prodi e il ministro del Commercio internazionale Emma Bonino citarono i dati della Fondazione Edison sul boom dell'export italiano nel 2006-2007).

Alcuni autori hanno recentemente contestato questa nostra tesi (Boeri T. e Scarpa C., www.lavoce.info, 16 aprile 2010), sostenendo sostanzialmente che: 1) non è vero che l'export italiano negli anni immediatamente precedenti l'attuale crisi sia cresciuto più di quello degli altri maggiori paesi avanzati; 2) i dati di export espressi in dollari da noi utilizzati enfatizzerebbero artificialmente la crescita italiana per cui sarebbe meglio usare valori in euro; 3) gli oltre mille primi, secondi e terzi posti nell'export mondiale detenuti dall'Italia (su un totale di circa 5.500 prodotti) evidenziati da una nostra ricerca presentata anche su questo giornale (21 gennaio 2010) in realtà non conterebbero "nulla" perché trattasi di nicchie (che i due autori citati hanno equiparato in modo sprezzante a "fiammiferi"); 4) esportare beni, comunque, vuol dire poco, perché oggi a livello internazionale l'export di servizi cresce di più; 5) l'export di per sé ha scarso significato se non si considerano anche le importazioni e quindi sarebbe più opportuno guardare alla dinamica della bilancia commerciale complessiva (export meno import).

Premesso che non abbiamo mai suggerito di impiegare l'export come misura di benessere sostitutiva del Pil (altra accusa che ci è stata rivolta), sui primi 4 punti risponderemo in maniera sintetica. Punti 1 e 2: sia che si utilizzino come fonti l'Onu, la Wto o l'Eurostat, è incontestabile che anche in euro tra il 2005 e il 2008 l'export dell'Italia e della Germania sia cresciuto percentualmente di più degli export di Usa, Uk, Giappone e Francia. Sul punto 3 facciamo notare che gli oltre mille primati del made in Italy nell'export mondiale da noi individuati valevano nel 2007 ben 235 miliardi di dollari (altro che fiammiferi!): questo grande risultato è un merito dei nostri imprenditori manifatturieri che meriterebbe ben altro rispetto. D'altronde anche l'ultimo Trade Performance Index dell'Unctad/Wto dice che nel 2008 i due paesi più competitivi al mondo nei 14 principali macrosettori del commercio internazionale sono stati la Germania (8 primi posti e 1 secondo posto) e l'Italia (3 primi posti, 4 secondi posti e 1 sesto posto). Punto 4: i dati della Wto indicano che l'export mondiale di merci resta tuttora quattro volte più importante in valore di quello dei servizi. Quindi, a nostro avviso, l'Italia fa bene a tenersi ben stretto il suo export manifatturiero, senza dimenticare che anche nel turismo (che fa parte dei servizi) deteniamo il quarto posto al mondo per entrate nette.

  CONTINUA ...»

25 aprile 2010
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