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America alla corte del Re Carbone

di Jeffrey Sachs

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25 ottobre 2009


Il Trattato sul cambiamento del clima delle Nazioni Unite, firmato nel 1992, impegnava l'intera comunità internazionale a «scongiurare una pericolosa interferenza antropogenica nel sistema climatico». Nonostante ciò, da allora le emissioni di gas serra non hanno fatto altro che continuare ad aumentare vistosamente.
Gli Stati Uniti si sono rivelati i maggiori e peggiori indolenti al mondo, rifiutandosi di ratificare il Protocollo di Kyoto del 1997 o di adottare efficaci misure di controllo delle emissioni nel loro territorio. In questo periodo di preparazione che prelude al summit mondiale di Copenhagen a dicembre, in occasione del quale si condurranno le trattative per approdare a un documento sostitutivo del Protocollo di Kyoto, ancora una volta gli Stati Uniti sono motivo di grande preoccupazione. Ancora adesso, infatti, la politica americana resta profondamente spaccata sul cambiamento globale del clima, benché il presidente Barack Obama abbia nuove opportunità per superare l'impasse.
A un anno di distanza dal trattato del 1992, il presidente Bill Clinton cercò di far approvare una tassa energetica che avrebbe aiutato gli Stati Uniti a iniziare ad affrancarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili. La proposta non soltanto fallì, ma oltretutto innescò una violenta reazione politica. Quando nel 1977 fu adottato il Protocollo di Kyoto, Clinton non lo inoltrò neppure al Senato degli Stati Uniti per la ratifica, consapevole com'era che sarebbe stato bocciato. Il presidente George W. Bush nel 2001 lo sconfessò apertamente e per tutto il suo mandato alla presidenza non ha fatto assolutamente nulla per il cambiamento del clima.
Vi sono svariate ragioni alla base di questa noncuranza del tutto particolare evidenziata dagli Stati Uniti - e tra esse l'ideologia e l'ignoranza scientifica - ma la vera ragione può sintetizzarsi in una parola sola: carbone. Negli Stati Uniti sono non meno di 25 gli stati che producono carbone, il che significa posti di lavoro, reddito, introiti fiscali, ma anche una preponderante copertura del fabbisogno interno di energia.
Negli Stati dove si estrae carbone le emissioni procapite tendono a essere molto superiori alla media nazionale. Poiché affrontare il cambiamento del clima in primis e più di ogni altra cosa significa ridurre le emissioni prodotte quando si brucia il carbone - il combustibile a maggior produzione di anidride carbonica in assoluto - gli stati carboniferi americani sono particolarmente diffidenti e temono le implicazioni economiche di qualsiasi forma di controllo (quantunque i settori petrolifero e automobilistico non siano poi molto lontani).
Anche il sistema politico statunitense pone problemi particolari. Per ratificare un trattato, infatti, occorre il beneplacito di 67 senatori su 100, un ostacolo pressoché insormontabile. Il partito repubblicano, con i suoi 40 seggi al Senato, ha troppi ideologi nelle proprie fila - a dirla tutta troppi senatori impegnati a mandare a monte qualsiasi iniziativa di Obama - per arrivare a un numero di voti in grado di superare la soglia critica dei 67 necessari. Inoltre, tra i ranghi dei senatori del partito democratico ve ne sono molti originari degli stati carboniferi e petroliferi, ed è molto inverosimile che siano intenzionati ad appoggiare queste iniziative.
L'idea di fondo di questo nuovo tentativo è aggirare l'obbligo del raggiungimento della soglia dei 67 voti a favore, quanto meno all'inizio, puntando l'attenzione su una legge interna più che su un trattato. In base alla Costituzione degli Stati Uniti una legge interna per essere approvata richiede (rispetto a un trattato internazionale) una maggioranza semplice, sia alla Camera dei rappresentanti sia al Senato, prima di essere inoltrata al presidente affinché la firmi. Arrivare a mettere insieme 50 voti a favore di una legge sul cambiamento del clima è risultato pressoché certo (in caso di pareggio è determinante il voto del vicepresidente).
Quanti si oppongono alla legge minacciano di fare ostruzionismo parlando ininterrottamente per paralizzare tutte le attività del Senato, con la sola possibilità a quel punto di uscire dall'impasse se 60 senatori decidono di mettere ai voti la legge. Altrimenti, la proposta di legge è abortita, anche se ha il supporto della maggioranza semplice. Tutto ciò è verosimile che accada con una legge interna sul cambiamento del clima: garantirsi 60 voti sarà un'impresa molto ardua.
Gli analisti politici sanno che i voti dipendono dalle ideologie dei singoli senatori, dalle abitudini di voto dello stato al quale appartengono, dalla dipendenza del loro stato dal carbone rispetto ad altre fonti energetiche. Sulla base di questi soli fattori, da un'analisi sono risultati possibili 50 voti democratici a favore, 34 voti repubblicani contrari, 16 voti indecisi. Dieci di questi voti incerti dovrebbero essere espressi da democratici, quasi tutti originari di stati produttori di carbone. Gli altri sei invece dovrebbero essere di repubblicani che verosimilmente voterebbero come il presidente e la maggioranza democratica.
  CONTINUA ...»

25 ottobre 2009
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