È noto che, a causa di mancate scelte (o di scelte sbagliate), i traffici internazionali si sono consolidati da anni nei porti del Nord Europa: che servono ormai, in modo preponderante, persino la Pianura Padana (e questo avverrà in misura ancora maggiore dopo l'apertura del Gottardo) malgrado la posizione e le tradizioni marittime e trasportistiche del nostro paese.
Ne deriva la marginalità assoluta dei porti italiani, sia per quanto riguarda il sostegno alla nostra industria (che di fatto non è in grado di importare ed esportare in modo sufficiente dai porti italiani) sia in vista di una concreta politica dei trasporti dell'Unione per il Mediterraneo (i porti della sponda Sud necessitano di sistemi infrastrutturali di appoggio nella sponda Nord forti ed efficienti - e in grado di alimentare il continente attraverso i corridoi europei -, e non di una miriade di porti nessuno dei quali strategico per l'Europa). Ancora più evidente è il rischio della concorrenza spagnola e francese a seguito delle scelte compiute di recente da quei governi riguardo ai porti e ai collegamenti di corridoio su Barcellona e Valencia da un lato e su Marsiglia dall'altro.
Il governo italiano ha lodevolmente deciso, approvando un mese fa il Dpef Infrastrutture 2009, dove si propongono le piattaforme logistiche portuali/retroportuali/ferroviarie in quanto parti integranti dei Corridoi 24 (Genova-Rotterdam) e Adriatico-Baltico/V (Venezia-Trieste-Monaco-Vienna-Budapest-Lubiana). Evidente è, finalmente, una scelta di politica dei trasporti a carattere nazionale impostata sul Nord Adriatico e sul Nord Tirreno per servire non solo i mercati italiani, ma anche quelli del Centro ed Est Europa (aprendo anche a forme evolute di partnership internazionale verso la Russia). Chiara l'indicazione dei trasporti contenuta nel Dpef, si tratta ora di adottare le misure giuridico-organizzative conseguenti. Misure che, per recuperare il tempo perduto, non possono che essere urgenti, straordinarie ed efficaci (altrimenti sarebbero inutili!).
In primo luogo occorre individuare le piattaforme di corridoio, e cioè i terminali portuali e retroportuali e i tracciati corrispondenti d'infrastruttura ferroviaria e stradale che riescano a gestire a breve (e non fra 25 anni) quantità di traffico di 8-10 milioni di Teu e cioè di dimensioni significativamente diverse da quella attuale di Genova (che con poco più di un 1,7 milioni resta il primo porto italiano).
È vero che i porti e le infrastrutture sono in concorrenza su base paritaria: ma è anche altrettanto vero che per i porti alla radice dei corridoi, che svolgono un ruolo nazionale ed europeo, la scelta è rimessa al governo centrale che garantisce l'unità della politica dei trasporti ed è responsabile dell'adempimento degli obblighi internazionali e comunitari. Il che non significa, tuttavia, che, ai fini di questa scelta, il governo debba prescindere dalle comunità locali. A parità di condizioni, essendo molteplici le occasioni e opportunità sia nel Nord Ovest che nel Nord Est (quanto a porti, occorre ammetterlo, abbiamo solo l'imbarazzo della scelta...) sembra giusto investire in infrastrutture in quelle aree dove le comunità locali siano desiderose di riceverle e di caratterizzare così l'economia del loro territorio.
In secondo luogo occorre fissare alcune "regole di accelerazione" per la progettazione, realizzazione e per il funzionamento delle infrastrutture di corridoio (incluse le piattaforme portuali che ne fanno parte). È vero che l'Europa ha maturato evoluti sistemi di protezione degli interessi diffusi diversi da quelli vigenti in altre aree del mondo, come ad esempio la Cina, dove si costruisce un porto addirittura in meno di tre anni. Ma tutti constatiamo come di questi sistemi si sia abusato, e oggi, in Italia, per costruire una semplice banchina occorrono almeno dieci anni (complice anche una legge portuale inadeguata che, in contrasto con i principi europei, subordina l'efficacia del piano regolatore portuale alla valutazione d'impatto ambientale): se si vogliono rilanciare i traffici, e recuperare il tempo perduto, occorre creare subito le infrastrutture necessarie.
Quindi stato centrale e regioni dovranno dare luogo a soluzioni legislative condivise ma coraggiose che, salvi i principi fondamentali e l'ordinamento comunitario e internazionale (gli unici limiti alla legislazione ordinaria fissati all'articolo 117 della Costituzione), consentano di costruire subito le piattaforme logistiche nazionali e internazionali programmate nel Dpef.
In terzo luogo è urgente stimolare un'alleanza pubblico–privato che vada al di là delle ordinarie forme di partnership pur restando nell'ambito dell'ordinamento comunitario per la realizzazione di pubbliche infrastrutture. Occorre partire, e coinvolgerle davvero, dalle compagnie di trasporto marittime detentrici del traffico: e occorrerà essere molto convincenti, perché queste compagnie, che hanno consolidato rapporti e interessi nei paesi del Nord Europa o in Spagna, hanno tutto l'interesse a non alterare le loro scelte organizzative (anche, probabilmente, perché non credono più a una politica nazionale dei trasporti).
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