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L'INTERVENTO / Obama come Carter? Magari!

di Jimmy Carter *

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26 Febbraio 2010

Benché mi sia astenuto dal rispondere alle ingiustificate e sbagliate analisi sulla mia politica estera, mi sento obbligato a commentare l'articolo di Walter Russell Mead (La sindrome Carter, pubblicato su Foreign Policy, ndr). Deploro che Mead abbia utilizzato espressioni come Obama «nel peggiore dei casi potrebbe trasformarsi in un secondo Jimmy Carter», «debolezza e indecisione», «incoerenza e continui rovesciamenti di fortuna» per descrivere la mia presidenza.
Di particolare gravità è il fatto che Mead dichiari che «alla fine del suo mandato Carter si ritrovò a dare il suo pieno appoggio alla resistenza contro l'occupazione sovietica dell'Afghanistan, ad aumentare il budget della Difesa e a gettare le premesse per una più ampia presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente». Nessuna di queste fu una decisione dell'ultimo minuto, presa a partire da una tardiva presa di coscienza di presunte sviste o errori di valutazione commessi in precedenza.
A eccezione di sviluppi ovviamente imprevedibili, quali la caduta dello scià, l'invasione dell'Iran da parte dell'Iraq e l'occupazione sovietica dell'Afghanistan, tutte le iniziative sopra ricordate furono pianificate e addirittura annunciate prima ancora che io prestassi giuramento e m'insediassi alla presidenza. Tra queste vi furono le risolute decisioni prese nei confronti di Cina, Medio Oriente, Panama, il controllo delle armi nucleari, i bilanci della Difesa, Rhodesia e diritti umani.
Non fui oggetto di pressione alcuna quando decisi di lanciare un'iniziativa di pace in Medio Oriente, e lo feci dal primo giorno del mio mandato. A Camp David e nelle settimane seguenti, negoziammo una risoluzione per la questione palestinese e all'inizio del 1979 Egitto e Israele firmarono un trattato di pace. Benché non siano stati onorati gli impegni presi nei confronti dei palestinesi, neppure un articolo del trattato di pace è stato infranto. Purtroppo, da allora ci sono stati pochissimi progressi, se mai ce ne sono stati.
Nell'ambito dell'enfasi globale da noi data alla questione dei diritti umani, una priorità assoluta per me è stata porre fine al regime di apartheid in Africa. Iniziammo in Rhodesia, oggi Zimbabwe, con l'aiuto di alcuni alleati europei, dei britannici, del presidente della Tanzania Julius Nyerere, il presidente dello Zambia Kenneth Kaunda, e altri leader africani di colore. Quello sforzo fu coronato da successo. Insistemmo a chiedere la fine di quel regime oppressivo, esortando a concedere «un voto a ogni cittadino» e ciò negli anni seguenti ha dato effetti benefici.
Con ogni probabilità, la sfida politica più importante e sicuramente la più difficile che ho dovuto affrontare fu il negoziato dei trattati sul Canale di Panama e la successiva ratifica dal Senato. Quell'incarico, estremamente impopolare ma tassativo, era stato preso dai tempi del presidente Lyndon Johnson, ma era sempre stato procrastinato per ovvie ripercussioni politiche negative. In ogni caso, quell'iniziativa rafforzò enormemente i legami della nostra nazione con le popolazioni dell'America Latina e di molte altre del Movimento dei Non Allineati che in precedenza intrattenevano stretti rapporti con l'Unione Sovietica.
Il nostro pieno appoggio ai diritti umani e ai movimenti che per essi si battevano ebbe in molte nazioni un effetto positivo e a vasto raggio. La maggior parte dei paesi dell'America del Sud, per esempio, era governata all'epoca del mio insediamento da despoti o da giunte militari. Noi ripudiammo la politica in vigore da tempo negli Stati Uniti, finalizzata a fiancheggiare e proteggere questi dittatori "amichevoli" a discapito degli attivisti per i diritti umani e dei movimenti degli indigeni, e nel giro di quattro anni un buon numero di essi diede inizio alle procedure necessarie a organizzare elezioni democratiche - o si impegnarono a farlo a breve - su costanti pressioni da parte nostra e di veri e propri eroi così coraggiosi da sfidare i regimi oppressivi. Ben presto, tutti quei paesi divennero democrazie.
Dopo l'invasione sovietica del dicembre 1979, non avemmo esitazione alcuna e fornimmo armi alla resistenza afghana, e nel mio discorso al Congresso di un mese dopo dichiarai inequivocabilmente che condannavo l'invasione e che avevo informato i sovietici che qualsiasi ulteriore aggressione sarebbe stata interpretata come una minaccia diretta alla sicurezza della nostra nazione, e avrei pertanto reagito di conseguenza, senza necessariamente limitarci all'uso di armi convenzionali.
La nostra politica in Iran consistette nel rendere possibile allo scià il mantenimento del trono, a condizione che adottasse riforme politiche ed evitasse ai fanatici estremisti di prendere il potere, ma alla fine furono gli iraniani stessi a decidere. L'ingiustificata cattura e il sequestro dei diplomatici statunitensi da parte dei militanti fu la principale causa della mia sconfitta alle elezioni successive, ma la mia decisione di astenermi da qualsiasi intervento militare - a meno che non avessero fatto del male anche solo a un ostaggio - si rivelò saggia.
  CONTINUA ...»

26 Febbraio 2010
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